venerdì 3 settembre 2010
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«Non è un film di denuncia, ma il racconto di un disagio, di uno spaesamento, di una crisi della coscienza di chi non sa stare in nessun luogo». Così Ascanio Celestini, unico esordiente in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, descrive La pecora nera (accolto dal pubblico con sette minuti di applausi), diventata una pellicola dopo essere stato un monologo teatrale e un libro. I personaggi nati dalla mente dell’autore, fotografati dall’ottimo Daniele Ciprì, si sono rivestiti dei corpi dello stesso Celestini, di Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis e hanno popolato sullo schermo il «manicomio elettrico» dove Nicola, nato nei «favolosi anni Sessanta», vive da 35 anni mescolando realtà e fantasia e facendo la spesa al supermercato con la suora che lo ha allevato.Tra passato e presente, stranezze infantili, ricordi e schizofrenia, Celestini, che sceneggia insieme a Ugo Chiti e Wilma Labate, evoca con le immagini, ma soprattutto con le parole e quelle ripetizioni che caratterizzano il suo stile, un’esistenza placida e grigia, privata di quasi tutto. Una scommessa vinta, perché seppure il film (nelle sale il 15 ottobre) tradisce inevitabilmente alcune regole cinematografiche facendo storcere il naso ai puristi, d’altra parte è capace di regalare suggestioni ed emozioni con un uso assai personale del linguaggio, mescolando risate e tragedia, angoscia e leggerezza.«Ho scritto e riscritto il film fino alla fine delle riprese – dice Celestini – sovrapponendo monologhi a dialoghi, utilizzando le immagini come un foglio bianco e usando le parole spesso in contraddizione con quello che mostro. Conosco bene i manicomi, ho fatto moltissime ricerche sul campo e per me è più importante pensare al linguaggio che al mezzo».Aggiunge Celestini: «Nel film non si accenna né alla legge 180 del 1978, né a Basaglia, alla dimensione politica preferisco quella etica, alla società l’individuo, l’unico al quale possiamo ancorare le nostre speranze. Del manicomio, che comunque nel migliore dei casi è un luogo terribile, volevo raccontare la parte migliore, non farne un’istituzione criminale dove i pazienti vengono maltrattati.Anche il supermercato è un luogo di alienazione, ma con questo non voglio condannare la società dei consumi, bensì l’approccio compulsivo al consumo». Infine un ricordo: «Nel manicomio di San Clemente, a Venezia, uno di quelli dove ho condotto le mie indagini, un’infermiera mi raccontava tutti i momenti belli vissuti con i pazienti, come una carezza e un tramonto contemplato insieme. È vero che i malati di mente recuperano una certa umanità tra quelle mura, ma lì dentro riescono ancora a emozionarsi per piccolissime cose solo perché non è rimasto loro nulla».
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