martedì 3 dicembre 2019
Il giovane cantante lirico Matteo Macchioni in tour nelle chiese italiane: «Sono credente e canto il Natale. È la gioia della musica sacra, come quando ero bambino. E come mi ha insegnato Dalla»
Il giovane tenore Matteo Macchioni

Il giovane tenore Matteo Macchioni

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Il via nella città del suo mito Luciano Pavarotti, «per esaudire un grande desiderio: cantare il Natale, da credente, con il repertorio sacro nelle chiese d’Italia, gratuitamente per tutti». Ha appena abbandonato Copenaghen e il Mozart di Così fan tutte per una immersione canora di quattro serate prenatalizie il giovane tenore Matteo Macchioni che stasera non dovrà fare molta strada dalla sua Sassuolo alla chiesa di San Francesco (ore 20) nel cuore di Modena, in attesa di percorrerne assai di più nei prossimi giorni per completare l’ambizioso quadro. Con i concerti di Treviso il 6 dicembre nella chiesa di San Nicolò, del 9 a Firenze nella basilica di Santo Spirito e del 10 a Roma presso la chiesa di Sant’Ignazio di Loyola.
Macchioni, dall’opera lirica al canto sacro. Come nasce questo suo progetto?
L’idea di fare dei concerti gratuiti nelle chiese mi ha sempre affascinato perché la chiesa è un luogo di culto e di condivisione. E artisticamente non c’è niente come la musica che possa unire le persone all’insegna della bellezza e della spiritualità. Avevo fatto concerti natalizi negli ultimi due anni riempiendo la cattedrale di Carpi e ora allargo questo progetto. Con me ci saranno la pianista Mirca Rosciani, il soprano Francesca Tassinari e il violinista Gennaro Desiderio. E nei prossimi anni mi piacerebbe andare in altre chiese e in nuove città. Desidero donare al maggior numero di persone la gioia del Natale che ho provato io da bambino. Sono credente e ho ricordi meravigliosi.
Cosa proporrà?
Tra i brani in programma tre quarti sono di musica sacra. E se io canterò il Domine Deus dalla Petite Messe Solennelle di Rossini, il soprano eseguirà per esempio Inflammatus et accensus dallo Stabat Mater di Rossini. Filo conduttore drammaturgico sarà il nome di Maria. Dai classici inni mariani a brani come Maria dal musical West Side Story. Un amore che se non è divino e materno come quello della Madonna, è comunque alto e puro. Ma spiegheremo bene il perché di questi passaggi apparentemente azzardati dall’Ave Maria di Schubert a Leonard Bernstein.
La musica quando è entrata nella sua vita?
Ho iniziato presto a suonare il pianoforte e da ragazzino facevo anche l’organista in chiesa. Il caro don Angelo sfruttava evangelicamente i talenti che aveva tra i parrocchiani e mi metteva a disposizione l’organo della chiesa del mio quartiere, quello dell’Ancora. Ora, in qualche modo, restituisco e rimetto in circolo il patrimonio di sentimenti e di fede che ho ricevuto da bambino.
Dalle corde del piano a quelle vocali com’è stato il passaggio?
Al canto sono arrivato di riflesso. Durante gli anni al conservatorio, dove ho conseguito la laurea di secondo livello in pianoforte, mi sono accorto di questo squillo nella voce e ho cominciato a studiare canto. Ma quando nel 2010 debuttai con il maestro Daniel Oren a Salerno nell’Elisir d’amore ero ancora uno studente. Ci sono voluti molti altri anni per perfezionarmi e rendermi competitivo.
E l’exploit in tv con Amici di Maria De Filippi?
L’esperienza del talent mi ha fatto intercettare il grande pubblico televisi- vo, è stata utile per la successiva carriera di cantante lirico. Il principio di accademia era il connotato di quel talent e mi ha permesso di fare un grande lavoro di studio con Sergio La Stella, maestro di spartito al Teatro dell’Opera di Roma. È con lui che ad Amici ho studiato ogni giorno l’Elisir con cui ho poi debuttato a Salerno. Io il talent l’ho preso come opportunità di studio, di crescita e di visibilità.
Come mai fu scelto lei?
Alla selezione di Amici eravamo tantissimi e c’erano altri aspiranti cantanti lirici. Forse agli autori piacque il fatto che io oltre ad avere la voce impostata ero anche e soprattutto pianista. A colpirli fu anche che al primo provino mi misi al piano e cantai Miserere facendo sia la parte di Zucchero che quella di Pavarotti. Un vincente esempio di esibizione crossover, molto adatta alla tv. Ma che con l’opera lirica non c’entra niente. Bisogna chiamare le cose con il proprio nome. E io per esigenze di gara mi ero prestato a fare cose diverse. Qualcuno aveva storto il naso, ma del resto ci fu chi storse il naso persino per i concerti in tv dei Tre Tenori.
Domingo, Carreras e il suo conterraneo Pavarotti...
Direi: il mio inarrivabile conterraneo. Lui è un’icona, un gigante. Pavarotti aveva un’altra vocalità. Io sono un tenore lirico leggero, lui era un tenore lirico puro. Se facessi il cinque per cento della carriera che ha fatto lui in giro per il mondo sarei già al settimo cielo: lui è là su un piedistallo, lontano. Da guardare con grande rispetto.
Qual è il suo repertorio?
Rossini, Mozart, in parte Donizetti. Con Verdi e Puccini potrei fare al massimo il ruolo di Fenton in Falstaff o di Rinuccio in Gianni Schicchi che si addicono alla mia vocalità.
Manca poco alla prima della Scala con la pucciniana Tosca e Chailly sul podio...
Con Chailly ho lavorato nella Gazza ladra di Rossini nel 2017 con la regia di Gabriele Salvatores ed è stato proprio il mio debutto a Milano, ma non certo nel ruolo principale. Alla Scala del resto è bene entrare in punta di piedi. E sono convinto che ci sarà l’occasione di tornarci, magari con una delle prime parti che sto facendo ora in giro per il mondo.
Quanto conta il “made in Italy” vocale all’estero?
C’è grande rispetto nei confronti dei cantanti italiani e dell’opera italiana. Ma c’è tanta giusta competitività e viene premiato il merito, al di là della nazionalità. Essere italiano aiuta con la lingua, ma i cast sono sempre più internazionali e c’è molta professionalità. E per dialogare con i colleghi e il direttore d’orchestra serve conoscere bene l’inglese. Un altro mio grande impegno nello studio.
Tra lirica e musica sacra, nel suo crossover c’è posto anche per il pop?
C’è posto per un mio cavallo di battaglia, Caruso. L’ho cantata tantissime volte. Ma soprattutto ho avuto il privilegio di conoscere Lucio Dalla. Pochi giorni prima che se andasse, proprio a Sassuolo. Era appena stato al Festival di Sanremo a dirigere Pierdavide Carone, che avevo conosciuto ad Amici nel 2010, quando venne a tenere un concerto al teatro Carani. Era il 24 febbraio, la prova generale del tour all’estero che lo vide poi morire a Montreux il 1° marzo del 2012. Una sua frase mi illuminò.
Che cosa le disse?
Quella sera feci di tutto per incontrarlo, riuscii ad avvicinarlo, mi presentai e gli dissi che cantavo lirica. Ricordo che mi guardò e mi disse: “Mi sembra proprio che tu abbia tanta fame, continua ad averla questa fame perché il giorno in cui non l’avrai più non potrai più fare il musicista”. Una frase che non dimenticherò mai e di cui farò sempre tesoro. La fame che diceva Lucio, di arte, di pubblico, di condivisione è il sale di questo mestiere che è anzitutto una passione. Lucio è stato profetico: bisogna sempre essere affamati.

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