domenica 7 febbraio 2016
Hussar, fratello Shalom. Vivere insieme è possibile
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Era un domenicano egiziano di origini ebraiche e formazione culturale francese e proprio per questo si sentì capace di essere – secondo una felice definizione del suo amico cardinale Carlo Maria Martini – un «profeta di riconciliazione e di pace in Israele ». È l’avventura umana, ricca e a un tempo sofferta, di Bruno Hussar (1911-1996) di cui l'8 febbraio sono ricorsi i vent’anni della morte, avvenuta nell’amata Gerusalemme. Hussar riuscì a realizzare la sua «utopia»: costruire, su un’arida collina dei monti della Giudea nella valle di Ayalon, l’oasi di pace di Nevé Shalom/Waahat as-Salaam, un luogo dove dal 1974 convivono pacificamente e in mutua comprensione ebrei, cristiani e musulmani. Una testimonianza di convivenza confermata anche da altri sogni realizzati da padre Hussar, come quello di aver promosso a Gerusalemme con i confratelli domenicani un centro di studi sull’ebraismo, la Casa Sant’Isaia, o di essere stato uno dei padri nobili dell’Opera San Giacomo, che per volere del patriarcato di Gerusalemme sovrintende dal 1954 alla cura pastorale dei cattolici di lingua ebraica. Ma chi era questo profetico «figlio di Israele» (come egli amava definirsi), prima di vestire l’abito domenicano? Andrea Hussar – questo il suo nome alla nascita – viene alla luce al Cairo il 4 maggio 1911. Dopo il periodo scolare in Egitto (tra cui la frequentazione di un liceo italiano) si reca a Parigi, dove si iscrive all’Ecole Centrale des Arts et Manifactures.  A 22 anni, privo di ogni educazione religiosa ma assetato di assoluto grazie anche alla lettura delle opere di Gilbert Keith Chesterton, Hussar scopre la persona dell’ebreo Gesù di Nazareth. Due anni dopo, nel 1935, chiede il battesimo ed entra nella Chiesa cattolica. «Entrai immediatamente in un universo in cui tutto era sacro, – racconterà anni dopo nell’autobiografia Quando la nube si alzava – senza sapere ancora fino a che punto la mia identità ebraica vi si esprimeva. Non vivevo che per Dio, con Dio, in Dio». Conseguito il diploma nel 1936 e acquisita la nazionalità francese nel 1937, fino al 1942 Hussar lavora come ingegnere. È negli anni dell’occupazione nazista della Francia che il futuro domenicano prende più coscienza dell’antisemitismo, del suo essere cristiano ma anche di appartenere al popolo ebraico.  Cruciale per la sua scelta di farsi religioso (accarezzerà tra l’altro alla idea di diventare monaco certosino) sono l’incontro con il gesuita e teologo Gaston Fessard e il forte ascendente della madre ebrea, che non ostacola la sua vocazione a divenire sacerdote cattolico. Nel 1945 Hussar chiede di entrare a far parte dell’ordine domenicano nella provincia di Parigi e diviene fra Bruno: lo stesso nome del santo fondatore della Certosa. Dopo un lungo apprendistato di studi teologici e filosofici presso il prestigioso studio domenicano di Le Saulchoir (lo stesso frequentato da confratelli del rango di Chenu e Congar) viene ordinato presbitero nel 1950. A indurre il giovane domenicano a vivere il suo apostolato nella terra di Gesù è il provinciale Albert Marie Avril, che gli affida l’ambizioso mandato di tentare di fondare nella Gerusalemme ebraica un centro studi sul giudaismo analogo a quello di studi islamici dei domenicani al Cairo.  Da quest’idea allora solo abbozzata nascerà concretamente nell’inverno 1959 Casa Sant’Isaia. Negli anni che precedono l’avvio di questo centro studi d’avanguardia (1953-1959) padre Bruno vive a Jaffa ed esercita il ministero (tra l’altro come cappellano in una scuola dei Fratelli delle Scuole cristiane) in francese, inglese e italiano. Frequenta con successo la facoltà linguistica dell’università ebraica di Gerusalemme. A sostenere il suo apostolato di frontiera – visto con sospetto in ambito sia cattolico sia giudaico – ci sono anche due influenti cardinali della Curia vaticana, molto diversi tra loro per cultura e orientamento: Eugène Tisserant e Alfredo Ottaviani. Sono anni in cui il giovane fra Bruno da vero «costruttore di ponti», come ha appreso nella sua precedente vita da ingegnere, impara ad abbattere i muri delle indifferenze o (come direbbe la sua più autorevole biografa, Graziella Merlatti) sperimenta la «fatica di vincere i pregiudizi» attorno a lui che è ebreo, affascinato dalle regole della Torah e dello Shabbat, e allo stesso tempo sacerdote cattolico.  Degno di nota della sua avventurosa biografia è nel 1956 l’incontro con il capo del governo israeliano Ben Gurion, a cui assieme al confratello padre Raymond Jacques Tournay dell’École Biblique consegna una copia della famosa «Bibbia di Gerusalemme». Arrivata la stagione conciliare, Hussar nel 1964-65 partecipa al Vaticano II; su suggerimento del cardinale Agostino Bea, Hussar è nominato «perito » del Segretariato per l’Unità dei cristiani: fondamentale sarà la sua impronta per l’elaborazione del IV paragrafo della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, quello concernente i rapporti della Chiesa con gli ebrei, non «più rigettati da Dio».  «La mia partecipazione alla lotta perché la Chiesa, superando le inaudite forze di questo mondo e scrutando il proprio mistero – sarà la testimonianza di padre Hussar – compisse il passo considerevole di adottare la dichiarazione sugli ebrei, mi ha reso ancora più profondamente consapevole della mia appartenenza all’olivo buono, le cui radici sono i patriarchi, Mosé e i profeti. Ero giunto così assai vicino al nucleo centrale e, per così dire, al cuore della mia ragione di vita ». In seguito a questo successo in campo interreligioso Maurice Fisher – suo amico e all’epoca ambasciatore di Tel Aviv a Roma – gli comunica che può essergli concessa la cittadinanza israeliana. Ma l’azione di questo domenicano itinerante non si ferma: dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967) Hussar partecipa all’assemblea generale dell’Onu come consigliere della delegazione israeliana. Il suo sguardo visionario è già oltre, pensa al «folle sogno di Nevé Shalom». Nel 1970, grazie alla lungimiranza dell’abate della trappa di Latrun, il belga padre Eli, affitta per la cifra simbolica di 3 centesimi l’anno una collina di 40 ettari, una «terra di nessuno» tra Giordania e Israele. Da lì l’«utopia» diventa piano piano realtà: nel 1972 padre Bruno vi celebra per la prima volta l’Eucarestia. Ma sono anche gli anni della prova per l’ormai non più giovane domenicano, costretto a vivere spartanamente in un cubo di compensato con un ristretto gruppo di seguaci insieme ai quali lavora per innestare su una brulla collina della Palestina quella che anni dopo sarebbe diventata un’oasi di pace e di conciliazione. Già nel 1982 il villaggio (che diventa meta di sosta anche per tanti agnostici e persone in ricerca) ospita 7 famiglie: quattro ebree, due musulmane, una mista ebraico-cattolica e alcuni membri non sposati. Con giustificata soddisfazione Bruno Hussar può sottolineare che Nevé Shalom/Waahat as-Salaam è l’unico posto in Israele in cui bambini arabi ed ebrei sono educati insieme; infatti nella scuola del villaggio è garantito un insegnamento in lingua araba ed ebraica. Nel 1988 Hussar viene proposto per il Nobel per la pace. Nell’ottobre 1994 arriva l’ultimo riconoscimento della sua vita: è insignito del premio dell’Amitié Judèo-Chrétienne de France. Tra i sogni lasciati nel cassetto di questo religioso, vero «uomo delle Beatitudini » morto a quasi 85 anni, c’è anche l’idea, di realizzare un ricovero-comunità in Israele per i poveri, i mendicanti e i girovaghi, sull’esempio dell’Abbé Pierre. A tanti anni dalla sua scomparsa rimangono oggi ancora attuali le parole pronunciate nel giorno dei funerali di questo «artigiano della pace» dal confratello e compagno di tante avventure gerosolimitane Marcel Dubois: «Egli ci ha insegnato a capire in che consiste la misericordia: amare Dio e quelli che Dio ama con il cuore stesso di Dio».
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