venerdì 4 maggio 2018
Mai tradotto finora in Italia, “Lezioni di ballo per anziani e progrediti” è uno dei primi libri del grande scrittore praghese che qui esplora i temi della memoria
Lo scrittore Bohumil Hrabal (1914-1997)

Lo scrittore Bohumil Hrabal (1914-1997)

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Lo scrittore Alberto Schiavone, in una recente, breve ed essenziale guida-antologia sullo scrittore praghese Bohumil Hrabal, ( Il macellaio sembrava un gufo, Clichy, pagine 96, euro 7,00) sottolinea: «La maniera giusta per leggerne gli scritti l’aveva indicata lui stesso. Mettetevi comodi, ordinate da bere, che inizio a parlare. Pardon, a scrivere. Anzi, pardon, a trascrivere. Sì, perché Bohumil Hrabal si è sempre dichiarato un trascrittore, ponendo in chiaro quale fosse il suo atteggiamento rispetto al mestiere dello scrivere. La sua posizione nel mondo. Trascrittore di ciò che lo circondava, della storia del suo popolo colto e infelice, scriba sudato e coinvolto, mai distante, di narrazioni orali, di urla, risate sguaiate, “pensieri immateriali, i quali svolazzano per aria”. Di cialtronerie, irregolari vicende della vita normale, di sorrisi davanti alla tragedia, Di tragici silenzi». Conosciuto per la maggior parte della sua opera in Italia e omaggiato nel 2003 da un “Meridiano” Mondadori che presenta una nuova versione, tra l’altro, del memorabile Una solitudine troppo rumorosa, Hrabal – nato nel 1914 e morto nel 1997 – ha avuto bisogno di una distanza temporale per essere compreso a fondo, per uscire dallo spazio ristretto degli estimatori e per dimostrare quanto, pur non essendo autore facilissimo da leggere, non solo resti un grande maestro di stile che ha innovato il romanzo e soprattutto la sua funzione, ma diventi anche un esempio di quanto la letteratura possa nascere dalla vita e ad essa riportare.

Lo scrittore praghese conduce infatti il lettore in una sorta di avventura leggendaria e acrobatica della parola ricercata e raccolta nelle gesta dei sui “strampaloni”, il modo che aveva scelto per definire i suoi eroi, quelli che gli sapevano dare le voci per la scrittura. Del resto, tra lo scrittore e i suoi personaggi c’era una sorta di unità indissolubile, tanto che aveva scritto: «Là dove ho deluso come uomo, deludono anche i personaggi. E delle cose di cui sono fiero io, e sono comuni inezie umane, sono fieri anche i miei eroi». C’era un libro di Hrabal che non era stato ancora tradotto in Italia, uno dei suoi primi, un romanzo assai significativo e originale, pubblicato per la prima volta nel 1964. Ora lo possiamo leggere grazie alla cura e alla notevole traduzione di Giuseppe Dierna. Si tratta di un’opera assai originale che fa del parlato il suo pun- to di forza, soprattutto per la struttura a collage cui lo scrittore sottopone la sua prosa, riprendendo scritti degli anni Cinquanta e restituendo loro una forma diversa, in una narrazione funambolica, dove il punto fermo viene abolito e dove troviamo il lungo flusso di una voce che introduce a storie di un passato remoto, quelle di un tempo segnato dall’Impero Austro-Asburgico e dall’immagine quasi mitica dell’Imperatore Francesco Giuseppe, «lui che aveva voluto coltivare il rinascimento europeo».

La struttura di questo Lezioni di ballo per anziani e progrediti assomiglia a quella del montaggio cinematografico, con riferimenti alle comiche e ai suoi protagonisti, tanto sulfuree, tanto surreali, appaiono spesso le immagini evocate dalle storie, portate da una voce che sembra raccoglierne altre, per poi destrutturarle e ricomporle in una sorta di mosaico narrativo, molto più vivo e avvincente, avvolto in una sorta di mistero che non riesce a rivelarsi, di tanti giochi linguistici che le avanguardie in quegli anni proponeva nella letteratura europea e italiana (basti pensare al Gruppo 63). Hrabal dimostra che la parola è viva e resta tale se ha un’anima che la nutre, se lo scrittore non si limita a giocare con le parole, ma cerca una sorta di rappresentazione altra della vita, dove i personaggi gli offrono insieme alla parola, la visionarietà dei propri ricordi e le ossessioni di immagini che si rincorrono. A condurre in questa attraversata inconsueta nella memoria, in un monologo che riporta a episodi burleschi e di incredibile assurdità, è un uomo di settant’anni, che è stato calzolaio alquanto abile in una ditta di Vienna, ma anche operaio in una fabbrica di birra.

Emergono ricordi della vita militare «nell’esercito più bello del mondo», pettegolezzi sulla famiglia imperiale, conquiste e fallimenti amorosi, storie di vita matrimoniale non certo felicissime, delitti stravaganti, suicidi, eventi miracolosi, citazioni dalla pubblicità, immagini di belle donne, chiamate «sventolone », il ricorso ossessivo ad un simbolico «Libro dei sogni». Nel monologo emergono i frammenti di spazi di vita, sottratti all’ordine cronologico del tempo, deflagrati in un una sorta di magma che si muove fra comicità e tragedia, fra tempo vissuto o spazio apparentemente sognato che rimanda a quella memoria che non assomiglia a «qualsiasi tipo di macchina perfezionata » di cui parla Raymond Queneau, ma la considera somigliante «piuttosto alla natura, con buchi, spazi deserti, angoli inaccessibili», quegli stessi che sembrano contrassegnare le strampalate esistenze di eroi dalla qualità incerta, erratica.

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