mercoledì 20 febbraio 2019
L'autore di "Video killed the radio star” e produttore festeggia i 70 anni con tour e cd per rileggere gli anni 80: «L’ultimo periodo in cui l’uso del computer non prevaricava il saper suonare live»
Trevor Horn: «Il pop? Non morirà mai. Il rap di oggi non tocca il cuore»
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Si trattasse di un atleta, per sottolinearvi la sua grandezza vi elencheremmo record del mondo e medaglie olimpiche. Invece Trevor Horn, inglese classe 1949, dopo un debutto mica male in veste di popstar (con i Buggles e la celeberrima Video killed the radio star, nel ’79) ha svolto il mestiere di produttore: e per capire la sua qualità, dunque, i record e le medaglie da elencare sono… nomi. I nomi degli artisti, di alcuni degli artisti, da lui prodotti in quarant’anni: Pet Shop Boys, Simple Minds, Paul Mc-Cartney, Seal, Cher, Grace Jones, Tina Turner, John Legend, Rod Stewart, Robbie Williams, Lisa Stansfield, Tom Jones. Cui vanno aggiunti almeno gli Yes, di cui Horn ha anche fatto parte a più riprese, gli Spandau Ballet pure prodotti in tournée e i nostri Zero e Ramazzotti, per cui Horn ha arrangiato e prodotto diversi brani in album di successo. E senza contare l’apporto dato dall’artista a Band Aid nell’84: lo storico singolo Do they know it’s Christmas? nacque nei suoi studi, e di esso lui curò il lato B e tutti i remix. Ora però, alla vigilia dei settant’anni, Trevor Horn torna in scena in prima persona: producendo per se stesso Trevor Horn reimagines the Eighties, spumeggiante e colto viaggio con la sua Sarm Orchestra nella musica degli anni ’80, dall’alto profilo di Bowie o Springsteen passando per una rivalutazione di A-Ha o Tears For Fears, in alcuni casi con Horn pure cantante e più spesso con l’ausilio di ospiti quali Robbie Williams, Jim Kerr, Steve Hogarth, Tony Hadley o quel Seal che Trevor Horn stesso scoprì e con cui, nel ’95, vinse il Grammy.

Perché una popstar decide di dedicarsi a produrre?

«In realtà cantai quella hit dei Buggles per caso, e non mi piacque ricantarla per mesi sempre e solo in tv. Non era quello il modo di fare il musicista che avevo in mente. Fin dal ’75/76 studiavo come produrre, poi, anche se allora non c’erano manuali o corsi: e dopo quel brano e gli Yes nell’82 decisi di puntare tutto su un mestiere che mi avrebbe permesso di lavorare sempre con i materiali migliori. Non ho mai pensato, di essere così bravo da scrivere sempre cose belle».

Come si trova un talento, nel 2019?

«Come trent’anni fa o più: ci sono cinque cose necessarie per capire che c’è talento. Uno: la voce, di un paio di ottave, calda, valida anche sui bassi. Due: la capacità di scrivere belle canzoni o la conoscenza di gente che le scriva per te. Tre, il carisma: quando Seal passava si giravano tutti. Quattro: la salute, fisica e mentale, perché far musica è un lavoro duro. Cinque, la più importante: volere arrivare. Se manca una di queste cose, come capitò a Dylan con la voce, una o più delle altre deve essere sopra la media: in lui erano scrittura e carisma. Non basta l’immagine, insomma».

E dove si porta un talento oggi per lanciarlo?

«Non c’è una ricetta. Conta fare un disco con dentro qualcosa di buono: la gente se ne accorge sempre».

Oggi si può fare buona musica davvero nuova?

«Penso di sì, ma attenzione: il difficile sono i testi. Le note sono quelle da secoli eppure una musica nuova può arrivare ancora: è difficile scrivere testi veri, legati all’esperienza reale delle persone. Il pop è un modo di comunicare sentimenti profondi e diventa grandioso quando parla di cose universali, che restano. Oggi ci sono team di autori per le canzoni, ma vedo una crescita della professionalità parallela alla decrescita delle emozioni che sa dare gente come Springsteen».

Per questo lei nel suo cd rilegge gli anni Ottanta?

«Sì, e anche perché sono stati l’ultimo periodo in cui l’uso del computer non ha prevaricato il saper suonare dal vivo. I musicisti sapevano ancora che cosa fare».

Questo decennio che finisce che eredità lascia, invece?

«Trovo difficile anche citarle qualcosa da salvare… Di recente nulla mi ha innamorato, mentre in passato capitava spesso. Oggi si fanno singoli, le idee non sono mai sufficienti per dischi interi e figurarsi per impostare una carriera di quattro- cinque album belli».

Insomma lei non farà una rilettura dei rap, in futuro…

«Non amo ascoltare il rap. Non è musicale, non arriva al cuore. Ho prodotto anche musica dance, genere molto limitato, ma il rap lo è estremamente di più».

Quali sono gli artisti che ha prodotto cui è più legato?

«Seal, innanzitutto: è unico. E poi i Frankie Goes To Hollywood, negli anni Ottanta facemmo signori dischi insieme e la gente impazziva per loro dovunque».

Con gli italiani com’è andata?

«Io non parlo italiano! Quindi feci fatica con i tre pezzi prodotti per Stilelibero di Eros, non capivo cosa cantava. Con Zero per Amo-Capitolo I sarebbe stato uguale, ma lui fu troppo divertente per dirgli di no: voleva mandarmi i testi, guidarmi su come mettere la sua voce sulla base che avrei pensato… Troppa simpatia, tanto charme, si lavora rilassati e bene».

Cosa si regalerà, artisticamente, per i suoi 70 anni?

«Un tour di questo disco, con l’orchestra: che aumenta le potenzialità dei brani. Anche se mi fa strano, pensare alla mia età e ai miei 40 anni in pista…»

Ma è ottimista sul futuro della musica “leggera”?

«Amo questo mestiere e penso che la gente cercherà sempre la musica: il pop non morirà mai. Anche se a volte non sappiamo proprio immaginare dove e come nascerà, una bella musica nuova».

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