martedì 20 ottobre 2009
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Come «salvare la bellezza, trattenerla, la bellezza, bellezza ... dallo svanire lontano?», si chiede Gerard Manley Hopkins in una splendida poesia dal titolo The Leaden Echo and The Golden Echo, dedicata a quell’«eco di piombo e a quell’eco d’oro» che risuonano nella vita di ogni essere umano. L’eco di piombo è quella che ci fa credere che tutto passa, e che i «messaggeri di grigio» (messengers of grey) — grigio che è più che semplice «canizie» — sono i più veritieri nella nostra vita perché ci annunciano rughe e corruzione. Ma ecco che l’eco d’oro si diffonde per dire che c’è un well where, un luogo buono, beato, dove tutto ciò che di noi è fresco ma presto sfugge non vola più via (everything that’s fresh and fast flying of us... never fleets more). E dov’è questo luogo? Risponde Hopkins: Yonder, yes yonder, yonder, / Yonder: «Più in là, sì più in là, più in là, più in là...». C’è una ulteriorità che custodisce l’essere con cura amorosa (is kept with fonder a care). Lo sguardo di Gerard Manley Hopkins su ciò che esiste si distende da questa ulteriorità. Egli vede ciò che ha davanti a sé, ma la sua visione è a partire da un occhio che vede oltre e permette di superare il destino di corruzione di ogni cosa. Proprio questo sguardo spirituale sulle cose permette al poeta di aprire gli occhi che, altrimenti, resterebbero socchiusi. E che cosa vede Hopkins? Per saperlo occorre innanzitutto sfogliare i suoi primi diari e il suo Journal di schizzi e disegni che ritraggono in immagini e in parole oggetti, cose della natura nei loro dettagli più minuti, con una cura che è frutto non di ostinazione ma di estrema attenzione. Ciò che appare evidente leggendo Hopkins è il suo sguardo sulle cose. Esso sembra dimenticare che tutte hanno qualcosa in comune, cioè il fatto di essere. Tutte sembrano colte nella loro assoluta e irriducibile singolarità. La cura del dettaglio non è mai tensione ornamentale e gusto del particolare, ma riconoscimento, giustizia resa all’identità della «cosa» che viene colta con l’intuizione che riconosce in essa non un oggetto tra i tanti, ma un vero e proprio mondo in sé. Ed ecco che vengono in mente le parole del grande poeta vittoriano William Blake, che in Auguries of Innocence invitava a «Vedere un mondo in un granello di sabbia,/ e un cielo in un fiore selvaggio./ Chiudere l’infinito in un palmo di mano/ e l’eternità in un’ora». Qui Blake sembra davvero citare un detto attribuito a Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, di cui Hopkins faceva parte: «Non coerceri a maximo sed contineri a minimo divinum est», cioè: è divino non essere ristretti neanche dallo spazio più ampio possibile ed essere capaci di essere contenuti dallo spazio più ristretto possibile. Questo «precisionismo», se così possiamo definirlo, sarà determinante nella poetica di scrittori quali Hemingway o Faulkner, e ha in Hopkins una radice solida. Esso si innesta in una sensibilità, quella vittoriana, e da essa si sviluppa. Walter Ong (1912-2003), gesuita come Hopkins, ha le caratteristiche giuste e la formazione necessaria per comprenderla, essendo stato il poeta un suo grande amore: Marshall McLuhan fu supervisore della sua tesi di master in Inglese proprio su Hopkins presso la Saint Louis University (1941). A questo primo diploma, successivamente, faranno seguito gli studi di filosofia e teologia, presso la stessa università, dove insegnerà per 30 anni, e il dottorato ad Harvard. Hopkins è stato scoperto tardi, dopo la sua morte, e questo ha fatto sì, vista la modernità della sua poesia, che lo si vedesse in maniera astratta rispetto all’humus culturale del quale si era nutrito. Ong rende giustizia a queste radici solide, e fa comprendere in pagine luminose come e perché il poeta gesuita abbia sviluppato la sua originale ispirazione. Seguendo Ignazio di Loyola, Hopkins scopre nel sé il luogo in cui lo «spirito buono» o «spirito cattivo» causano mozioni di «consola-zione» e «desolazione». È consolazione quella gioia che porta l’uomo ad amare ogni cosa per Dio stesso. È desolazione la situazione affettiva dell’uomo che si sente separato dal suo Creatore e Signore. Da qui il compito di «in qualche maniera sentire e conoscere le varie mozioni che si causano nell’anima: per ricevere le buone e respingere le cattive» (Esercizi, 313). Si comprende così il valore e il senso della contrapposizione dell’«eco di piombo» e dell’«eco d’oro». La riflessione di Ong, gesuita come Hopkins, si concentra nel contestualizzare culturalmente, filosoficamente e teologicamente il sé di Hopkins e il suo rivolgersi al mondo e alla sua relazione con Dio. Ne risulta un grande affresco, ricchissimo di suggestioni e rinvii per comprendere non solamente la poesia di Hopkins, ma anche la coscienza moderna. Proprio il confronto strenuo e continuo del poeta con il sé, l’io unico e irripetibile di ciascuno, certifica la sua piena appartenenza all’età moderna. Divenire sé è il processo cruciale per l’esistenza umana. Ma il processo di selving, di divenire sé, è incompiuto: il suo luogo, come si è visto è, resterà fino al fuoco trasformante e trasfigurante della resurrezione, yonder, al di là, oltre.
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