mercoledì 3 dicembre 2014
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Romanzi, opere teatrali, documentari, film per il cinema e la televisione. William Nicholson, 66 anni, inglese del Sussex, educazione cattolica, è uno scrittore “totale”, uno capace di rimodellare sul set la sceneggiatura di un film come Il Gladiatore meritandosi una nomination all’Oscar. Tra i suoi “gioielli” figurano anche Viaggio in Inghilterra,  diretto da Richard Attenborough e Les Misèrables, di Tom Hooper, tratto dall’omonimo musical e ispirato al romanzo di Victor Hugo. Lo screenwriter britannico ha aperto all’Università Cattolica di Milano con una “lectio magistralis” il Master in Scrittura e Produzione per la fiction e il cinema dell’Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo. Un’occasione per parlare, fuori dall’aula, del suo mestiere, di Hollywood e dell’importanza di raccontare buone storie per il grande e il piccolo schermo. Qual è il segreto di una buona sceneggiatura? «Bisogna avere idee, se buttiamo molte cose sul muro, qualcosa di sicuro ci rimane attaccato. Poi è importante il metodo. Il migliore, secondo me, è lavorare in collaborazione, cosa che va accettata serenamente...». Chi scrive, in genere, è geloso delle proprie creature... «Sì, ma se io lavoro a Hollywood devo sapere che i mei... bambini verranno presi da qualcun altro, vivranno grazie al regista o potrebbero cambiare completamente rispetto a come li ho pensati io, soprattutto se entra in gioco un altro sceneggiatore, cosa che succede spesso... Se non si accetta questo, meglio fare solo letteratura». Perché lei, nei suoi lavori, predilige i temi storici e i personaggi epici? «Mi appassionano da sempre il mondo reale e il passato. E poi non mi piace adattare romanzi e basta. Uno scrive un film perché la gente lo vada a vedere, se si tratta di una storia conosciuta, quindi, è meglio. Adesso, per esempio, mi occupo di un progetto sulla scoperta della tomba di Tutankhamon... Io comunque lavoro sempre su commissione, faccio quello che mi chiedono i produttori, i quali sanno già quello che vogliono. Ma ho la fortuna di poter scegliere e molte offerte non le accetto». L’apporto della fantasia, però, è fondamentale nello sviluppo di una trama e nel delineare i personaggi di una storia... «Ovvio... Io rimango sempre stupito di quanto c’è di me stesso sia di fantasia che di epico, nei film che scrivo. Certi temi a me cari, come la famiglia, i rapporti tra uomini e donne, la ricerca della verità, e quindi il senso religioso, ritornano sempre». Che differenza c’è tra scrivere per il cinema e scrivere per la televisione? «Le faccio un esempio concreto. Ora sto preparando una serie tv intitolata Mafya, ambientata a Mosca nel periodo che va dagli anni ’80 al 2000, analizzo la nascita delle oligarchie in Russia, i rapporti tra criminalità e politica. È un lavoro molto simile a quello di quando si scrive un romanzo e questo in un film non è proprio possibile. Inoltre, me lo lasci dire, nel mondo della televisione c’è più rispetto per la figura dello sceneggiatore». Allude a qualcosa di personale? Si spieghi, la prego... «No, è che spesso a Hollywood si da scarsa importanza alla sceneggiatura: molti produttori pensano che per fare un film basti qualche spettacolare esplosione... Ma non è così. E non basta nemmeno una buona idea di base. Prendiamo il caso de Il gladiatore...». Ci racconti cosa successe... «Avevano speso fino a quel momento 30 milioni di dollari per fare il film, pagando saporitamente anche i due autori, ma poi si sono accorti, in corso d’opera, che la sceneggiatura era gracile. Mi “affittarono” per due settimane per rimpolparla... Alloggiavo in un camper parcheggiato sul set, ogni giorno riscrivevo una scena e ne parlavo con il regista Ridley Scott mentre la sera telefonavo al produttore per informarlo delle novità. Alla fine rimasi per 15 settimane ad aggiustare, aggiungere, modificare... Fu un grande vantaggio però, perché potei lavorare sugli attori vedendo le loro reazioni mentre recitavano. Rifeci anche il finale. Fu un forte stress per tutti, tanto che uno dei protagonisti, Oliver Reed, morì sul set per un infarto. Mi pagarono assai, come si fa con un medico del pronto soccorso quando capita un’emergenza... Ma se avessero dato più importanza al nostro lavoro all’inizio non avrebbero creato tutto quel caos». Lei ha scritto anche la sceneggiatura di “Unbroken”, il film di Angiolina Jolie che uscirà il 25 dicembre negli Usa e in primavera anche in Italia. È la bella storia di “resistenza e redenzione” di Louis Zamperini, un pilota italo- americano fatto prigioniero e torturato dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Ce ne vuole parlare? «Si ispira a un romanzo di Laura Hillenbrand pubblicato nel 2010. Nel cast ci sono Jack O’Connell e Domhnall Gleeson. È la vera storia di un eroe. Sono stato chiamato dalla regista a scrivere il copione ma dopo qualche tempo sono venuto a sapere che erano stati interpellati anche i fratelli Coen. Della storia iniziale rimane solo la prima parte, quella in cui il protagonista lotta per la sopravvivenza. La seconda, quella in cui entrano in gioco la fede e il suo riscatto spirituale, è sparita... Tutto finisce con la guerra, insomma. Si vede che redenzione, in quanto valore positivo, a Hollywood non piace».
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