giovedì 29 maggio 2025
Nulla sarebbe stato più lo stesso dopo quella «notte infetta», seguita da «un mattino sordido, rosso di sangue innocente»: il libro di Pol Vandromme sulla tragedia del 29 maggio 1985
La tragedia allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985 in occasione della finale di Coppa dei Campioni, Juventus-Liverpool

La tragedia allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985 in occasione della finale di Coppa dei Campioni, Juventus-Liverpool - Ansa

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«Non si può parlare di sport davanti a tutto questo...» furono le parole pronunciate da uno sconvolto Bruno Pizzul in telecronaca diretta dallo stadio di Bruxelles. Una frase indelebile nella memoria della mia generazione, che è anche “quella dell’Heysel”. Sulle gradinate del vecchio impianto sportivo di Bruxelles, il 29 maggio 1985 si consumò la più immane delle stragi da ultimo stadio che si ricordi. Prima della finale di Coppa dei Campioni fra Liverpool e Juventus, l’apocalisse si era abbattuta sul settore Zeta, la gabbia della morte dove per la follia dei famigerati e temutissimi “animals”, gli hooligans inglesi, persero la vita 39 persone: 32 di loro erano italiani così come la maggioranza degli oltre 600 feriti. Famiglie che erano arrivate lì nella capitale del Belgio per assistere alla massima festa del calcio europeo tornarono in Italia orfane di un padre, una madre o di un parente: morti nella calca asfissiante o finite a colpi di coltello dalla follia omicida del branco calato da Liverpool. La mia generazione e un popolo intero quella sera di quarant’anni fa ha assistito in diretta a una tragedia inimmaginabile. L’amico e collega Bruno Pizzul quelle volte che affrontammo l’argomento Heysel, con la memoria si rituffava in un mare profondo di emozioni amare e considerazioni angoscianti. Quella diretta il Bruno nazionale la visse come in uno stato di trance. Nella sua postazione, ostaggio degli eventi in corso, era chiamato ad assolvere il suo dovere professionale di fare informazione, «senza allarmare troppo, ma nemmeno minimizzare la tragedia che si stava compiendo. «Così ho raccontato cose inaccettabili». Inaccettabile fu anche che lo show andò avanti lo stesso. Il pallone listato di nero dai 39 lutti non si poteva fermare per “ragioni di sicurezza”, l’unica cosa che mancò dall’inizio alla fine di quella partita. Così la Juventus, in un clima cimiteriale in cui si disse che era stata obbligata a giocare per «ragioni di ordine pubblico», vinse (1-0) e conquistò la sua prima storica Coppa dei Campioni. Dal dischetto del rigore il gol-vittoria lo segnò Michel Platini, che solo molto tempo dopo rielaborando il senso di colpa pronunciò una delle sue perle filosofiche: «Quando l’acrobata cade, entrano i clown». Frase riciclata per il titolo del monologo teatrale dello juventinissimo Walter Veltroni. «Una frase in effetti autoassolutoria, Platini non poteva sospettare che la sua allegoria celava un senso preterintenzionale e recava pertanto, il segno di una verità ulteriore», scrive lo juventino - sivoriano e ultimo vero critico letterario militante Massimo Raffaeli in prefazione a Le gradinate dell’Heysel. Una morale per il calcio (Vydia Edizioni, pagine 105, euro 15,00). Un raro trattato sociofilosofico sul calcio scritto a caldo e d’un fiato da Pol Vandromme (19272009), finissimo intellettuale belga, critico letterario, noto per i suoi saggi sugli autori prediletti Pierre Drieu La Rochelle e Marcel Aymé e per essere stato il biografo di Louis-Ferdinand Céline. Per questo nel viaggio al termine della notte degli orrori del calcio, Vandromme è riuscito a scrivere delle pagine eccezionali, perché il suo pensiero fa eccezione nella ridda del quanto già detto e scritto sull’argomento. Di questo testo apocalittico, l’unico vero saggio capace di smascherare il mostro dell’Heysel, Raffaeli è stato un antesignano e da tempo infatti invocava un’edizione italiana, che ora va assolutamente sponsorizzata. Perché Vandromme, come Pier Paolo Pasolini , di cui è quasi coetaneo, nell’analisi sociale del fenomeno football parte dalla passione poetica e giovanile per il calcio giocato nei campetti «innevati di fuliggine» della sua Charleroi. E le gradinate della sua giovinezza tifosa sono quelle dello stadio Mambour, «la couche di una passione che si specchia solamente nell’epica della squadra di casa, i bianconeri semidilettanti dello Sporting», sottolinea Raffaeli. Ma per Vandromme, quell’epica di colpo il 29 maggio dell’85 mentre assiste, probabilmente da telespettatore, alla finale di Coppa dei Campioni, si sgretola e cade a pezzi come il muro della curva maledetta dell’Heysel. Se per Pasolini «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo» davanti a quelle immagini il pensatore belga scopre che proprio nella sua terra si sta consumando la fine di quel rito che da sacro si è fatto sacrificale. Per un gioco assurdo del destino, manovrato dalla folla folle e ubriaca, le vittime sacrificali si sono immolate sull’ara di quella che Vandromme definisce la “Bestia insaziabile”. Il calcio dopo quella «notte infetta», seguita da «un mattino sordido, rosso di sangue innocente», non sarebbe stato più stato lo stesso. E con nausea da Sartre di destra e quasi con orrore di quanto sente di dover scrivere, quasi d’un fiato a poche ore di distanza dall’evento tragico, Vandromme verga avvelenato: «L’onda dei sicari e degli iloti ebbri era già gonfia, presa da una frenesia mostruosa, la rissa era precipitata fino in campo, l’orrore marchiava lo stadio con le proprie stimmate ». È il più doloroso dei j’accuse quello che celebra il funerale del “calcio di poesia”. Vandromme inorridisce dinanzi alla creazione, per mano dell’iperconsumistico capitalismo neoliberista, della nuova entità che faceva il suo ingresso in campo per dominarlo ab illo tempore, il “Neocalcio”. Il campo di football, fino ad allora benedetto dagli dei del gioco come espressione di regole sane e condivise da nobili protagonisti, sul prato dell’Heysel cedeva definitivamente il passo dinanzi alla «Bestia insaziabile ». Questa «salutava le sue divinità che le offrivano il giro d’onore e il trofeo dell’olocausto ». Non ci sono vincitori in questa triste e drammatica storia, ma solo tanto sangue dei vinti. Vandromme vede e prevede i segnali di una disfatta imminente e la fine della sacralità del calcio che sarà inondato da un diluvio finanziario, dove le azioni dei calciatori in campo saranno secondarie a quelle quotate in Borsa e la «Bestia insaziabile » passando dal piccolo schermo riuscirà ad entrare in ogni casa e a qualsiasi ora. Un attacco letale, senza via di scampo. « L’Heysel - scrive Vadnromme - riveste il mantello di Noè. È il mantello dei poveracci, della miseria dei ricchi, della loro bassezza di riccastri… della loro cecità redditizia, della loro ferocia di profittatori, l’espediente della loro doppiezza e del parassitismo». Sulle gradinate del fatiscente e decrepito Heysel (inadeguato per una finale Uefa, tutti sapevano!), presero disordinatamente posto la miseria della plebaglia inglese che con le sue orde barbariche, retrovie armate di spranghe e coltello nell’esercito di un impero mercantile in decadenza, colpirono a morte. Caddero degli innocenti dell’opposta fazione, vittime già in partenza di uno Stato da sempre assente: « L’efferatezza del Paese italiano è la stessa di una società senza Stato», chiosa caustico Vandromme. Nel buio, al termine di quella notte assurda le uniche luci che vide l’autore de Le gradinate dell’Heysel furono quelle dei «Bobby e dei Johnny che curarono le piaghe dei Marco e dei Luciano. Abbiamo anche visto, in una grotta francescana, quello che salvò la vita a una ragazza torinese che la stava perdendo». La speranza che ancora oggi, anestetizzati dallo stucchevole showbiz chiamato calcio, ogni tanto riaffiora, nonostante lo spettro della sciagura permanente cominciata quel 29 maggio, sta forse in quella flebile luce del cero assai consumato della sacralità del gioco che, anche quella notte, fece scrivere a Vandromme: « La civilizzazione ha resistito in qualche oscuro angolo, sulla via samaritana, la sosta della magnanimità per la parabola evangelica».

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