giovedì 25 ottobre 2018
La filosofa ungherese, che viene premiata a Udine, pubblica la terza parte della sua trilogia sulla morale e dice: «Il male non può mai essere tollerato»
La filosofa ungherese Ágnes Heller

La filosofa ungherese Ágnes Heller

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Mentre aspetta l’intervistatore nella hall di un albergo di Milano, Ágnes Heller sbriga un po’ di posta elettronica. A conversazione finita, tornerà al computer per inviare qualche altra email. Questo è probabilmente il comportamento di una decent person: fare il proprio dovere e farlo liberamente, nel momento propizio. La nozione di decent person è uno degli elementi centrali della riflessione su etica e morale che la filosofa ungherese (nata a Budapest nel 1929, da tempo si divide tra gli Stati Uniti e il suo Paese d’origine) ha avviato fin dagli anni Ottanta. Della trilogia complessivamente intitolata Una teoria della morale erano finora noti in Italia i primi volumi, Etica generale e Filosofia morale, pubblicati dal Mulino rispettivamente nel 1994 e nel 1997. Adesso esce da Mimesis la terza e ultima parte, Un’etica della personalità (pagine 438, euro 30,00: l’edizione originale risale al 1996) dove i curatori Laura Boella, Andrea Vestrucci e Chiara Zancan concordano nel tradurre decent person come “persona perbene”. «Ne sono sempre esistite e sempre esisteranno, anche nei momenti più bui della storia», commenta Ágnes Heller. Sopravvissuta alla Shoah e allieva di György Lukács, è una delle pensatrici più importanti dei nostri tempi, capace di affrontare questioni estremamente complesse con gli strumenti di un’affilata semplicità. Attraverso il racconto, per esempio. «Delle tre sezioni di cui si compone Un’etica della personalità – spiega – solo la prima adotta il linguaggio dell’argomentazione filosofica. Nelle altre due mi sono servita del dialogo teatrale e del romanzo epistolare».

Perché?

«Nei volumi precedenti avevo fornito una mia interpretazioni dei principali concetti etici e avevo indagato la dimensione morale del pensiero contemporaneo. In sostanza, non avevo ancora affrontato la filosofia morale propriamente intesa. Quando ho provato a farlo, mi sono resa conto di come le diverse posizioni non potessero essere esposte in astratto. Al contrario, era necessario mettere in evidenza il conflitto che emerge tra le affermazioni di autori differenti. Una dimensione drammatica che, alla fine, sfocia in una storia d’amore».

Addirittura?

«Sì, perché l’amore è la manifestazione più evidente della tensione che intendo indagare. Qualcosa di simile, del resto, accade anche nella prima sezione del libro, nella quale si analizza l’ossessione che Friedrich Nietzsche sviluppò nei confronti di Richard Wagner muovendo dalla pressoché incondizionata ammirazione iniziale. Il punto più alto della crisi fu segnato dal Parsifal, l’opera nella quale Nietzsche più avrebbe potuto riconoscersi e che invece rifiutò con determinazione».

Nietzsche è uno dei protagonisti del libro.

«Insieme con Immanuel Kant e Søren Kierkegaard, esattamente. Al centro di Un’etica della personalità c’è il dissidio tra due studenti di filosofia: il primo, Joachim, aderisce alla visione kantiana della morale, fondata su princìpi universali, mentre Lawrence, sulla scorta di Nietzsche, rinvia ogni scelta alla libertà dell’individuo. Il loro dibattito è destinato a cambiare di intensità con l’arrivo di un terzo personaggio, Vera, una ragazza dalla quale entrambi sono attratti e che impersona la concezione esistenziale della morale secondo Kierkegaard».

Posso chiederle da che parte sta lei?

«Chieda pure, ma rispondere è impossibile. Quello che ho cercato di dimostrare è che, quale che siano le convinzioni di partenza, le scelte morali avvengono sempre in condizioni particolari, che possono perfino contraddire le premesse teoretiche. All’atto pratico il kantiano Joachim assume un atteggiamento coerente rispetto agli assunti di Nietzsche e altrettanto avviene, con una perfetta inversione dei termini, nel caso di Lawrence. Quanto a Vera, fin dal nome sembra rivendicare il proprio legame con la verità, ma non dimentichiamo che nel pensiero di Kierkegaard l’ironia gioca un ruolo determinante ».

Significa che una scelta equivale all’altra?

«No, il punto non è questo. La questione è non possiamo apprezzare il valore di una scelta fino a quando questa non entra a contatto con la realtà, fino a quando non si fa concreta e, di conseguenza drammatica. Le teorie, di conseguenza, hanno la stessa funzione di un bastone o di una stampella a cui appoggiarsi mentre si procede su un terreno accidentato».

Da qui l’importanza della storia d’amore?

«La sezione conclusiva del libro è, come accennavo, un piccolo romanzo epistolare. C’è Fifi, una ragazza di quindici anni, che scrive alla nonna Sophie, per raccontarle che cosa le sta accadendo: si è sta innamorata di un giovane filosofo, che è poi il Lawrence che già conosciamo, ma non riesce ad accettare le sue idee. Come deve comportarsi?».

Il consiglio della nonna qual è?

«Lo stesso che avrebbe dato mia nonna, Sophie Meller, della quale il personaggio è il ritratto. Anch’io, da ragazza, ero soprannominata Fifi, ma i miei quindici anni sono stati diversi dai suoi. Vede, mia nonna era una donna molto intelligente, molto portata alla comprensione. Attorno a lei ruotava una famiglia numerosa, all’interno della quale era inevitabile che sorgessero conflitti. Casa sua, però, era sempre aperta a tutti e tutti erano invitati, quali che fossero le convinzioni o le condizioni di vita. Da lei ho imparato che non c’è nulla su cui non si possa dialogare, eccezion fatta per le azioni evidentemente immorali. Il male non può mai essere tollerato, tanto meno giustificato».

È una lezione che vale anche per l’Europa di oggi?

«Più che la morale, qui è la storia a dover essere chiamata in causa. La crisi che stiamo affrontando non può non ricordare i drammi del Novecento, che discendono a loro volta da quello che, a mio avviso, rimane il peccato originale dell’Europa moderna ».

Quale?

«La prima guerra mondiale, nella quale esplodono in tutta la loro violenza i nazionalismi che avevano cominciato a covare verso la fine del XIX secolo. I totalitarismi, i genocidi, i milioni e milioni di morti causati da guerre e persecuzioni sono il risultato di politiche nazionaliste terribilmente simili a quelle che si stanno ripresentando adesso in molti Paesi. La stessa Ungheria, purtroppo, è all’avanguardia in questo processo».

Lei che cosa prevede?

«Sono sempre molto restia a parlare del futuro. Di sicuro, guardando alla situazione attuale, posso dire che l’Unione Europea rappresenta l’ultima occasione per tenere in vita l’eredità più preziosa del continente. L’Europa deve scegliere:o si trasforma in un museo, nostalgicamente dedicato alla contemplazione di un passato culturale e artistico ormai tramontato da tempo, oppure assume su di sé la responsabilità di promuovere e difendere la democrazia liberale, che è la sola forma di governo in grado di armonizzare tra loro giustizia, etica e bellezza».

Perché la bellezza?

«Perché una decisione eticamente giusta è sempre bella, nel senso più autentico del termine: riguarda la sostanza della realtà, non il suo aspetto esteriore, che può anche essere ingannevole».

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