Jaden Michael, Oakes Fegley e Julianne Moore protagonisti de “La stanza delle meraviglie” (Mary Cybulski)
«Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle». Questo aforisma di Oscar Wilde citato ne La stanza delle meraviglie, il nuovo film di Todd Haynes, offre allo spettatore il senso di un’opera che, a partire dall’omonima, bellissima graphic novel di Brian Selznick (l’autore di Hugo Cabret, qui arruolato anche come sceneggiatore) e sulla scia del cinema spielberghiano per famiglie, ci regala una storia di grande fascino, originalità e poesia. Nel film, in competizione al Festival di Cannes nel 2017, il dodicenne Ben, che ha appena perduto la madre, ossessionato da un incubo ricorrente e vittima di un incidente che l’ha reso sordo, fugge dalla casa della zia in Minnesota per andare a New York, in cerca del padre che non ha mai conosciuto. L’unico indizio è un biglietto con l’indicazione di una libreria trovato nel vecchio catalogo di una mostra sulle origini dei musei, i cosiddetti “gabinetti delle meraviglie”. Contemporaneamente assistiamo al viaggio della giovanissima Rose, sorda anche lei, che vive da sola con il padre e coltiva una grande passione per una diva del cinema muto di cui colleziona foto e notizie. Nella Grande Mela ci arriva per cercare la madre, che l’ha abbandonata molto tempo prima, e suo fratello maggiore. Due storie parallele ambientate in periodi storici diversi - la prima negli anni Settanta, colorati e pop, la seconda negli anni Venti, girata in bianco e nero, come fosse un film muto di Vidor e Murnau - destinate a incrociarsi in maniera inaspettata e rocambolesca e a svelare un mistero. Per questo bisogna abbandonarsi al piacere del racconto e della scoperta, a un percorso costruito per condurre lo spettatore a un epilogo ingegnoso e sorprendente, dove il montaggio riveste un ruolo cruciale.
Prodotto da Amazon (con cui il regista realizzerà anche una serie su Sigmund Freud), il film interpretato da Oakes Fegley, Julianne Moore (alla quarta collaborazione con il regista), Michelle Williams e la piccola Millicent Simmonds (sorda anche nella realtà), è un omaggio al cinema delle origini e restituisce tutta la complessità del mondo infantile, ma anche la densità di quello silenzioso. Il passato continua a ispirarmi – dice Haynes, che ha scoperto la sceneggiatura del film grazie alla costumista Sandy Powell – e trovo sempre delle buone ragioni per guardare al cinema degli scorsi decenni. La storia funziona bene anche perché contrappone il 1927, un momento di ascesa e speranza di una New York in espansione, al 1977, che è stato il punto più basso nella storia della città, in cui tutto cadeva a pezzi. Il film però, espressamente pensato per un pubblico di giovanissimi, è anche un tributo a tutto quello che si può fare con le mani, dalla ricostruzione in scala di New York nel museo del Queens al linguaggio dei segni, che anche Julianne Moore ha imparato per interpretare questo ruolo. È il mio personale omaggio al senso del tatto. Mi piaceva l’idea di raccontare ragazzini senza particolari “poteri”, anzi, con un handicap, accomunati da una grande solitudine, ma impegnati a sopravvivere nel mondo, a cercare il proprio posto e una riposta alle domande che li ossessionano. In fondo La stanza delle meraviglie è un film sulla ricerca di un linguaggio con il quale comunicare e di una famiglia dalla quale essere amati. Le storie che adoravo da bambino erano proprio come queste, molto ancorate alla realtà piuttosto che affidate alla fantasia. È stato affascinante lavorare sull’intrecciarsi di due stili, contrapponendo musica e suono. Non avevo mai fatto un film così, basato sull’immaginazione dei ragazzi, un vero giallo con indizi sparsi ovunque, che chiariscono perché queste due storie siano raccontate nello stesso film».
La sordità dei due personaggi principali è stata una vera e propria sfida per il regista, che non poteva contare sui dialoghi per trasferire informazioni. «Tutto quello che i bambini apprendono nel film – dice Haynes – lo apprendono osservando la realtà che li circonda, mentre la parola passa in secondo piano. Confesso di non amare i film dove i dialoghi sono protagonisti. D’altra parte il cinema è l’arte delle immagini e questa scelta è stata un modo per rendere omaggio agli anni del muto, all’essenza stessa della settima arte. Volevo trovare un modo per accendere la fantasia dei bambini senza le convenzioni del suono, come quando si è chiamati a riempire gli spazi delle illustrazioni. Quando chiedi agli spettatori di riempire degli spazi, questi mettono in moto dei poteri che tutti possediamo, ma che spesso trascuriamo». Importante allora anche la colonna sonora, che come una impalcatura sorregge il film. E tutto il cinema di Haynes: basti pensare ai due originali biopic Velvet Goldmine ispirato a David Bowie e Io non sono qui dedicato all’opera di Bob Dylan, ai quali si aggiungerà un documentario, il primo del regista, sul gruppo Velvet Underground. «La musica sta alla base di tutto quello che abbiamo costruito ed è stata una grande sfida definire una playlist che comprendesse brani degli anni Settanta, tra cui Space Oddity di David Bowie, e degli anni Venti, composti da molti compositori classici arrivati negli Usa per realizzare colonne sonore, come Prokovief, Shostakovich e Britten».