venerdì 14 novembre 2014
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C’era una volta, e c’è ancora, l’Uccellino del calcio, Kurt Hamrin che, dalla Svezia, volò fino in Italia per fare il suo nido a Firenze (dietro all’università del pallone di Coverciano). Comincia così la favola di Kurt e di Marianne, che ci accolgono nel loro nido con la simpatia di Sandra&Raimondo in versione svedese.Due uccellini inseparabili, da 60 anni in qua: «La primavera dell’anno prossimo festeggiamo le nozze di platino», scintillano gli occhietti vispi di Marianne mentre suggerisce assist da tifosa («sono l’unica milanista in casa, gli altri tengono tutti alla Fiorentina»): ricordi e aneddoti al suo Kurt. La mamma dei cinque figli di casa Hamrin («Susanna, Carlotta, Piero, Riccardo ed Erika. In più ci sono 8 nipoti e un bisnipote»), vola da uno scaffale all’altro in cerca di riviste d’epoca, mentre segue il racconto. Quello di una leggenda del pallone che il prossimo 19 novembre taglierà il traguardo delle 80 primavere.La favola del numero “7” («quando i numeri avevano un senso»), la risposta europea al brasiliano Garrincha, inizia nel 1956 con il breve volo a planare su Torino: sponda Juventus. «In Svezia all’epoca ero un calciatore dilettante, come tutti. Mio padre Karl e uno dei miei tre fratelli facevano gli imbianchini, io invece mi impiegai come zincografo: componevo le pagine del quotidiano “Dagens Nyheter”. Sveglia all’alba, poi stavo in tipografia dalle 7.30 fino alle quattro del pomeriggio, due volte alla settimana allenamenti e la domenica in campo con l’Aik Stoccolma. In caso di vittoria mi davano massimo 50 corone (15 euro di allora), ma se perdevamo la tasca restava vuota». Però un giorno la fortuna andò a bussare alla sua porta. Dalla Fiat di Stoccolma un osservatore lo segnalò alla Juve che, visto all’opera con la nazionale svedese («doppietta al Portogallo») non esitò un istante a portare quell’attaccante atipico sotto la Mole. «Debuttai con due gol alla Lazio, ma non fu un bell’inizio... Mi feci male alla caviglia, “quinto metatarso” fracassato, come El Shaarawy l’anno scorso. Solo che il “Faraone” è stato fuori mesi, a me dopo una settimana mi ributtarono dentro». Scuote la testa Marianne e ricorda: «Cercavamo il calore dell’Italia, ma Torino era chiusa, un po’ troppo francese. Fu una sorpresa quando scoprimmo che qui le ragazze per andare a ballare dovevano essere accompagnate dal padre o dallo zio, altrimenti rimanevano chiuse in casa». Atmosfera retrò che fa sorridere Kurt, il quale, nonostante le 8 reti realizzate salutò Torino. «La Juve prese il gigante Charles e Sivori che era il “Maradona” dei tempi. Allora non si potevano tesserare tre stranieri».Così l’anno del Mondiale di Svezia 1958 lo preparò al Padova del «grande Paròn», Nereo Rocco. La“Faina” chiuse la breve parentesi patavina con un ineguagliato terzo posto, un souvenir di 20 gol e soprattutto da idolo indimenticato dell’Appiani. «Che peccato che l’abbiano chiuso, era favoloso giocarci. Parlano tanto di stadi all’inglese, ma l’Appiani era così un secolo fa. A battezzarmi la “Faina” fu Rocco che si stupiva di come uno come me, un metro e settanta d’altezza e dalla muscolatura “normale”, riuscisse a schizzare via tra i giganti della difesa - tranne Facchetti picchiavano tutti duro - e a trovarmi sempre lì sotto porta al momento giusto». Il monicelliano architetto Rambaldo Melandri avrebbe risposto a Rocco: quello è il «genio», ovvero «fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione». Tutte doti che Hamrin nel ’58 mostrò al mondo intero trascinando la Svezia in finale contro il Brasile di Pelè.  «Con Simonsson ero stato il miglior marcatore svedese del Mondiale (4 reti) e avevo realizzato il terzo gol nella semifinale con la Germania. Pelè aveva 18 anni, ma era già il più grande di tutti, però se in finale al posto nostro fossero andati i tedeschi forse il Brasile non avrebbe vinto...». Marianne scuote nuovamente il capo, non è affatto d’accordo. Dall’album dei ricordi tira fuori una foto di quella storica sfida e si commuove: «È un sottopiatto che abbiamo trovato in un ristorante in Brasile. Quel giorno ero allo stadio e la cosa più bella è stata quando Pelè e compagni a fine partita hanno fatto il giro di campo con la bandiera svedese».Cose da favola. Come quella dei tanti connazionali che migrarono felicemente in Italia. «Dal ’52 al ’58 almeno una trentina di svedesi si sono trasferiti qua, e tanti erano dei fuoriclasse. C’era il mitico “Gre-No-Li”, Gren, Nordhal e Liedholm del Milan e quel genio di Nacka Skoglund che da solo ha fatto grande l’Inter». E poi c’era quell’Hamrin che da vicecampione del mondo finalmente volò nel suo nido fiorentino, ereditando il “7” viola del carioca Julinho. Arrivò due anni dopo il primo scudetto della Fiorentina e pur andandoci vicino non riuscì a fare il bis. «Ho collezionato quattro secondi posti in campionato e nella classifica cannonieri», nonostante il record assoluto di gol segnati in maglia viola (208 in 9 stagioni). «In compenso – suggerisce Marianne – conquistò l’unica Coppa delle Coppe nella storia della Fiorentina» e complice la penna arguta di Beppe Pegolotti, per tutti divenne l’amato ed eterno Uccellino.Un passero frullante dalla fascia destra all’area di rigore, che a 33 anni era pronto a migrare di nuovo. Chiamato al Milan dal “Paròn” l’Uccellino che ancora voleva segnare, si tolse la soddisfazione di «giocare con il miglior numero 10 italiano, Gianni Rivera» e dopo aver fatto gol in semifinale, al Manchester United, di salire sul tetto d’Europa. «La Coppa Campioni del ’69», esulta Marianne alzandosi dal divano per andare a prendere la foto del Napoli dove Hamrin, dopo 515 gare e 312 gol, emise il suo canto del cigno in Serie A. «Ho smesso in Svezia, all’Aik, ma a 38 anni vedevo ancora bene la porta».Kurt è come il suo vino, l’Hamrin 7, invecchiando migliora. Ma l’Uccellino non è invecchiato dietro a una scrivania e neppure in panchina. «L’unica procura la feci per Ibrahimovic al Milan quando era al Malmö. Gli telefonai e lui mi rispose: “Non so cosa sia il Milan...” («Poi dopo c’è andato di corsa», interviene Marianne). Come allenatore mi è bastato un campionato alla Pro Vercelli per capire che la maggior parte dei presidenti sono dei presuntuosi convinti di aver inventato il calcio». Èstato meglio dedicarsi all’import-export di ceramiche e nel tempo libero alla scuola calcio. «Per un po’ mi sono divertito a crescere i bimbi della Settignanese. Tonelli che ora gioca nell’Empoli l’ho avuto dai 7 ai 10 anni anni».Oggi allo stadio Franchi non va più, perché dice: «Come si fa ad andare alla partita quando è ora di pranzo? Meglio vederlo in tv. Chi mi piace? Quel ragazzino del Palermo, Dybala, mi somiglia... Invece non sopporto più quei giocatori, e sono tanti, che non sanno fare altro che falli». Parola di uno che in carriera non è mai stato ammonito e tanto meno espulso. «Però nel ’58 con la Germania hai fatto finta anche tu, urlavi a terra e l’arbitro ha buttato fuori il loro difensore». Lo rimbrotta ironica Marianne che richiude l’album di una vita, da cui esce l’ultima fotografia. «È la “casina”, il nostro rifugio estivo in Svezia. Sono 45 metri quadrati, ma dietro c’è tanto bosco. Nel giardino vengono a fare il nido gli uccellini, proprio come il mio.
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