Marek Halter è un uomo che non perde il sorriso neppure davanti al più terribile degli ostacoli. «Il vero problema – scandisce con lievissima ironia – è che dividere è facile, mentre unire è molto, ma molto più difficile». Nato a Varsavia nel 1936 e francese d’adozione, Halter ha fatto del proprio ebraismo il punto di partenza per un’esplorazione delle religioni monoteiste che continua a snodarsi tra saggi, romanzi e pamphlet, come il recentissimo
Riconciliatevi!, tradotto da Francesco Bruno per Marsilio (pagine 64, euro 4,50). Un appello al dialogo e alla riscoperta delle comuni radici che si adatta perfettamente al clima del premio per la Cultura del Mediterraneo – Fondazione Carical che Halter riceverà domani al Teatro Rendano di Cosenza (tra gli altri vincitori, lo psicoanalista Massimo Recalcati, lo scrittore Raffaele Nigro e il divulgatore Alberto Angela). «Il più grave errore attuale – avverte Halter – consiste nel ridurre il Mediterraneo a una sorta di lago nel quale muoiono ogni giorno uomini e donne alla disperata ricerca di un tozzo di pane. No, il Mediterraneo rimane, nonostante tutto, il centro del mondo. Qui sono nate le fedi monoteiste, da qui si è sviluppata una civiltà che ha profondamente influenzato tutte le altre. Su queste sponde si sono affacciati Platone e Geremia, Socrate e Gesù, Sofocle e Maometto».
Il mondo di oggi, però, non sembra esserne molto consapevole.«Perché è un mondo che si muove con una rapidità che sconfina nella fretta. Siamo stati abituati a pensare che i cambiamenti fossero frutto di eventi straordinari: guerre, rivoluzioni, colpi di Stato. Ormai non è più così, le trasformazioni avvengono anche in assenza di episodi di rottura. Ma il cambiamento, se possibile, è ancora più profondo rispetto al passato. Il mondo che la mia generazione ha ereditato da quella precedente svanisce in una lontananza favolosa, che ci costringe a fare a meno delle speranze laiche di un tempo. Mio nonno, ebreo, si arruolò volontario nella Brigate internazionali per combattere contro i fascisti in Spagna. Non era solo una questione politica, era un afflato di fraternità universale, di cui adesso non si trova traccia. A ogni latitudine i giovani non levano più lo sguardo verso un ideale, ma tengono gli occhi bassi sui loro smartphone. La globalizzazione ha uniformato il mondo, senza però renderlo più unito».
A che cosa si riferisce?«Al fatto che l’elemento religioso è divenuto centrale nello spazio pubblico, ma in maniera del tutto inattesa. Lo si nota anche dai dettagli. Quando saluto un amico dicendogli “a domani”, sempre più spesso mi sento rispondere “se Dio vuole”. Un riflesso meccanico, privo di vero significato, eppure molto rivelatore. Non si tiene più in alcun conto la distinzione operata da Gesù, quel “date a Cesare” che rinviava alla responsabilità del potere civile. Dio viene sempre messo in mezzo, solitamente a sproposito, ma non si comprendono i rischi che questo comporta».
È lo spettro del fondamentalismo?«La questione è molto semplice: abbiamo lo stesso Dio, ma non lo chiamiamo con lo stesso nome. Sembrerebbe un fatto marginale, ma il risultato è che, usando nomi diversi, finiamo per far esistere divinità diverse. Se vogliamo scongiurare il rischio di una terza guerra mondiale che prenda a pretesto questa contrapposizione, dobbiamo insistere con convinzione sempre maggiore sui processi di dialogo e di riconciliazione. Per questo motivo io, ebreo, ho voluto guidare una delegazione di imam musulmani nella visita a papa Francesco. Il tempo stringe, ormai. A meno che non si riesca a invertire la tendenza, l’unica alternativa alla riconciliazione è la guerra. Lo ha capito bene il presidente Obama che, conscio del pericolo imminente, ha cercato il dialogo con Putin sulla crisi in Siria».
Ma un eventuale intervento militare non contraddirebbe lo spirito di riconciliazione?«In questa fase dobbiamo assolutamente evitare di consegnare la religione ai fondamentalisti. L’Europa dovrebbe anzitutto abbandonare la paura di nuove invasioni barbariche, se non altro perché la storia ci insegna come, anche ai tempi dell’Impero romano, i cosiddetti barbari hanno finito per assimilarsi, diventando romani a tutti gli effetti. Ma se le politiche di accoglienza dovessero fallire, ci troveremmo a fronteggiare il più irriducibile dei nemici. Chi è convinto di morire nel nome di Dio non ha paura di nulla ed è disposto a tutto, anche a disconoscere il valore della vita umana. Che è, questa sì, dono di Dio. I fondamentalisti islamici che combattono in Siria e in Iraq, in Yemen e in Somalia, ci terrorizzano perché non cercano il dialogo, ma la distruzione del nemico. Non vogliono incontrare l’altro, ma annientarlo. Lo ripeto: dobbiamo impedire che l’islam, una delle grandi religioni mondiali, sia sequestrato da una simile mentalità. Perché questo accada, però, anche l’Occidente deve riscoprire l’importanza della conoscenza reciproca e, quindi, della riconciliazione».
Lei ha più volte auspicato una federazione tra Israele, Palestina e Giordania: crede davvero che sia realizzabile?«Credo che, oltre alla vita, Dio ci abbia fatto un altro dono che non teniamo nella dovuta considerazione. Questo dono è la parola, che permette agli uomini di conoscersi e riconoscersi. La nostra cultura si fonda sul dialogo tra Atene e Gerusalemme. Con il tempo altre capitali, tra cui Baghdad, si sono aggiunte a questa conversazione. Sta a noi, come intellettuali e come cittadini, fare in modo che la parola abbia ancora una volta la meglio».