mercoledì 8 settembre 2010
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Da 22 anni lavora ad Haiti, una delle nazioni più povere del pianeta, piagata dal terremoto che il 12 gennaio scorso ha causato migliaia di morti. Eppure padre Richard Frechette, 57 anni passionista americano del Connecticut, non si è mai tirato indietro di fronte ai bisogni della terra dove opera come missionario e medico. Amico di diverse star di Hollywood, alle quali ha chiesto appoggio per la sezione haitiana di Nuestros Pequenos Hermanos che dirige, padre Frechette ha appena pubblicato, grazie alla Fondazione Rava che ne supporta i progetti, il suo libro-diario Haiti (Rizzoli, pp. 266, euro 17,50): lo presenterà venerdì 10 settembre al Festival della letteratura di Mantova.Padre Frechette, com’è la situazione attuale di Haiti?«Non si assiste ad un’attività concreta per risolvere i problemi del dopo terremoto: ci sono ancora tante rovine, dappertutto. Nelle città rimango diffuse le tendopoli, non si vede una grande volontà di ricominciare. Non esiste niente di organizzato per far rinascere quanto distrutto. Certo, sul campo sono presenti le ong che cercano di fare qualcosa, ma non possono ricostruire su larga scala! Enti umanitari come il nostro cercano di fare quel che possono ma non abbiamo le forze per rimettere in piedi una città. A livello governativo non c’è la forza per ricostruire». Questo dramma ha colpito una nazione tra le più disagiate del mondo …«Certo, qui il problema è strutturale: a marzo in Cile c’è stato un grave terremoto, ma quello è un Paese organizzato e si sta tirando fuori dalla tragedia. La California ha avuto lungo la storia terremoti gravi, ma non ci sono stati né danni né distruzione per la popolazione. A Port-au-Prince l’ambasciata americana non ha subito danni. Il governo haitiano invece non ha i soldi per affrontare i problemi del sisma: questo è un problema antico, che affonda nel sottosviluppo della popolazione che non sa come ricominciare». Quali le vie per una vera rinascita?«La chiave è il lavoro. Qui sono tantissimi i disoccupati, quando invece, per far ripartire un Paese, l’occupazione è centrale. La gente deve lavorare e non aspettarsi il riso in aiuto. Dopo la seconda guerra mondiale e la distruzione che ne è seguita, la gente ha lavorato per ricostruire il proprio Paese in Germania o in Giappone. Quel sistema ha funzionato perché la gente ha ricostruito il proprio habitat distrutto. Così dobbiamo fare anche qui ad Haiti. Dopo la Grande Depressione del Ventinove negli Stati Uniti si potè avere ripresa economica dando lavoro alla gente disoccupata. Dobbiamo ricostruire l’agricoltura, il turismo, rimettere in piedi le linee di comunicazione dando lavoro alle persone. La violenza ad Haiti deriva da questo: quando la gente ha fame e sete e non possiede nulla, può esser spinta alla violenza, che però non è qualcosa di generalizzato. L’intera popolazione oggi vive ai limiti della sopravvivenza: quello che si vede qui, le tendopoli, è terribile. Certo, è importante l’educazione, però qui i giovani finiscono la scuola e poi non trovano un lavoro: l’80% della popolazione è disoccupata. Come può vivere un popolo se non c’è lavoro? Come potreste andare avanti voi in Italia se l’80% di voi non avessero un’occupazione? Il lavoro è il motore dello sviluppo di un Paese. Come si fa se i dottori, gli insegnati non hanno di che lavorare? Tutte queste persone vorrebbero ricostruire il loro Paese ma non possono: non lavorano!». È "arrivata" l’onda di solidarietà con Haiti?«A livello "alto" non riescono a far ripartire la ricostruzione. A parole tutti promettono, ma poi non son capaci di fare qualcosa di concreto: manca la capacità di creare infrastrutture. A livello governativo ed internazionale non si vedono passi concreti nella ricostruzione. Il governo ha cercato di costruire quartieri per quanti vivono nelle tendopoli ma non c’è riuscito. Tanto che i sopravvissuti vivono ancora nelle tende. Però ci sono anche dei segni di speranza: quando si vedono mamme che fanno chilometri per prendersi cura dei loro bambini in ospedale, quando si vedono persone che curano gli ammalati, quando si nota la solidarietà di chi vive nelle tendopoli, allora si vede che la gente ha voglia di ricostruire la propria terra e la propria vita».Quindi un ruolo lo hanno anche i Paesi come l’Italia…«Manca un aiuto globale ed internazionale. L’esecutivo di Haiti dovrebbe operare per la ricostruzione ma non lo fa. Perché? Il primo motivo è che la situazione disastrosa di Haiti ha radici nello sfruttamento antico di questa terra. Il governo non ha i soldi per intervenire. Stando a sentire quanto qui si dice, solo il Venezuela e qualche altro Paese sudamericano hanno dato i contributi promessi per ricostruire».Quale messaggio offrirà a Mantova?«Vorrei che passasse un principio molto importante, ovvero quanto io credo nella dignità della persona umana e quanto si deve fare per dare un livello di vita degna a tutte le persone. Non bisogna mai dimenticarlo! Chi ha influenza deve spingere i governi a livello internazionale per operare affinchè si dia dignità alla gente». Lei è anzitutto un missionario. Come ha fatto a conservare la fede nella povertà e nel terremoto di Haiti?«Non sono stato mai disperato. Ho una convinzione molto chiara su due punti: la bontà certa di Dio e la profonda bontà dell’essere umano. In mezzo a queste convinzioni c’è la vita di tutte i giorni e le persone che fanno del bene o compiono il male. Nonostante questo resto fermo su quelle due certezze: che Dio ci ama e che l’uomo è buono».
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