domenica 5 giugno 2016
​Lo scrittore, finalista al premio Von Rezzori, parla del suo Paese e della sua gente travolti dal sisma di sei anni fa: «Questo popolo è talmente abituato alle condizioni difficili che porterebbe la speranza persino all’inferno».
Laferrière: HAITI terra di catasfrofi e resurrezioni
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Tra i sopravvissuti del terrificante sisma di Haiti del 2010 c’è una donna che da quel maledetto 12 gennaio ha smesso di andare a messa. «È Gesù che deve venire a trovarmi – ha spiegato – perché è lui che ha qualcosa da farsi perdonare». Oltre a creare morte e devastazione, il terremoto ha messo a dura prova la fede di un popolo che non ha mai perso la speranza di fronte a colpi di stato, uragani, terremoti e tanta miseria. «Il morale della mia gente resta sempre alto, anche nel buio più profondo», ci dice il più grande scrittore haitiano, Dany Laferrière, arrivato in questi giorni a Firenze per partecipare alla fase finale del premio Von Rezzori. Il suo libro Tutto si muove intorno a me (66thand2nd, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Francesca Scala; pagine 134, euro 16,00) è nella cinquina dei finalisti dalla quale mercoledì 8 giugno uscirà il vincitore di questa decima edizione del premio. Figlio di un esule, Laferrière vive in Canada da quando, perseguitato dalla dittatura, fu costretto a scappare dal suo Paese. Dalla fine del regime di Duvalier ha fatto ritorno sempre più spesso ad Haiti, e il giorno del terribile sisma di sei anni fa si trovava a Portau- Prince per partecipare a un festival. Era seduto con gli amici in un ristorante quando sentì la prima scossa. Senza neanche accorgersene si ritrovò in mezzo a una catastrofe che in pochi minuti cancellò migliaia di vite e ridusse in macerie un intero Paese. Si salvò, ma il destino lo costrinse a calarsi nuovamente nel ruolo di cronista (mestiere che aveva svolto in gioventù) per raccogliere lo sgomento e il dolore del suo popolo di fronte a quell’immane tragedia. È così che è nato Tutto si muove intorno a me, un libro straordinario che non è né un romanzo, né un reportage, bensì un mosaico di aneddoti, racconti, versi poetici e ricordi tra realtà, finzione e immaginazione. «Questa gente – scrive – è talmente abituata a procurarsi di che vivere in condizioni difficili che porterà la speranza perfino all’inferno». Ma ci voleva la sua scrittura, capace di dare forma a un caleidoscopio di suoni, voci, colori e odori, per raccontare la grandiosa dignità del popolo haitiano all’indomani del terremoto. Autore di una ventina di libri (in settembre arriverà anche la traduzione italiana del romanzo L’arte pressoché perduta del dolce far niente, sempre per 66thand2nd), Laferrière è il se- condo scrittore nero della storia ammesso tra gli Immortali dell’Académie française. Prima di lui soltanto Léopold Senghor, simbolo dell’indipendenza del Senegal, era stato capace di entrare nella celebre istituzione culturale creata nel 1635 dal cardinale Richelieu per salvaguardare la lingua e la grammatica francese. Il ritorno al Paese natale e il confronto continuo con le proprie radici sono temi ricorrenti nella sua letteratura. Eppure non le piace essere definito uno scrittore in esilio, perché? «Perché credo che quando si scrive si sia sempre in esilio. Questa distanza è necessaria per vedere meglio quello che si sta scrivendo. Ogni scrittore è di fatto un esiliato. Non esiste una sola forma di esilio. C’è l’esilio del tempo, che è più spietato di quello dello spazio. Si può ritrovare un paese dopo averlo lasciato, ma mai la propria infanzia. Il fatto di essere tutti in esilio cancella l’espressione 'letteratura in esilio'. Penso che a volte si tenda a categorizzare gli scrittori per sminuirli». Qual è l’importanza della lingua e della cultura di Haiti nella storia della resistenza del suo popolo alla dittatura e alle catastrofi che ha vissuto anche in epoche recenti? «Credo che la mia gente abbia uno spirito di resistenza innato. E anche una certa eleganza. La nostra storia è stata forgiata nel fuoco della guerra contro gli eserciti di Napoleone che sfociò nell’indipendenza di un popolo di schiavi, la prima nella storia dell’umanità. Abbiamo il 'creolo', una lingua che ha permesso la coesione sociale degli schiavi nel periodo coloniale e il 'vudù', una religione che ha consentito agli schiavi di spaventare i padroni e di riappropriarsi dello spazio della notte. Ma Haiti non si è seduta su questi tre capisaldi (il creolo, il vudù e l’indipendenza) per affrontare la tempesta della vita. Quello che ha sbalordito il mondo dal terremoto del 2010 non è stata solo la catastrofe in sé, ma il modo in cui gli haitiani l’hanno affrontata». E qual è invece, nello stesso senso, l’importanza della religione per il popolo haitiano? «È sia positiva che negativa. Positiva per esempio, quando il vudù coagula attorno a sé tutta una cultura: canti sacri, complessi rituali, pantheon di divinità, farmacopee. In breve, un’arte di vivere. Negativa invece quando, per esempio lo stesso vudù si allea con la classe dirigente per associare un potere spirituale al potere materiale del dittatore. Quando i sacerdoti vudù diventano degli informatori della polizia della dittatura. La chiesa cattolica che rifornisce il Paese di religiosi che insegnano in tutte le città, è la stessa Chiesa che a volte ha legittimato la borghesia. Dunque ci sono lati positivi e negativi. Mia madre dice sempre che 'Dio è l’unico medico la cui clinica è sempre aperta, giorno e notte'. E lo dice in un Paese praticamente privo di ospedali, soprattutto dopo il terremoto». Lei ha denunciato la 'guerra semantica' che da sempre colpisce il suo Paese. In tempi recenti Haiti è stato addirittura definito un Paese 'maledetto'. Se lo dovesse descrivere lei, con un aggettivo, quale userebbe? «Haiti non è un Paese maledetto, ma è un Paese 'magico'. Basti pensare ai pittori primitivi che mostravano sempre un universo colorato, un paesaggio verde dove gli alberi sono pieni di giganteschi frutti succosi, i fiumi rigogliosi di pesci, una natura umana semplice e allegra. Il Paese sognato dai pittori, ma anche un Paese vero perché nonostante le difficoltà della vita quotidiana e la terribile miseria, le persone sono cortesi, eleganti, splendide. Un Paese che sa cosa significa resistere». Perché ritiene che l’Occidente si sia sempre rifiutato di riconoscere la nascita di Haiti? E che conseguenze ha avuto questo sulla storia recente del suo Paese?  «Haiti è stata ribattezzata la 'prima repubblica nera della storia', ma è una definizione che spesso ha irritato i vecchi colonizzatori che talvolta si rifiutano di riconoscerne l’indipendenza. Questo non ha alcuna conseguenza sugli haitiani, che sono ben coscienti della loro identità, ma a volte ciò li ha esclusi dal resto del mondo. Viviamo questa situazione difficile da oltre due secoli. Suscitiamo l’interesse del mondo solo quando ci sono gli uragani o i terremoti. Catastrofi dalle quali ci rialziamo subito perché siamo abituati da sempre ad affrontarle. La ricostruzione materiale del Paese è ancora molto difficile, ma la ricostruzione umana è stata eccellente. Il morale del mio popolo è sempre alto, anche nel buio più profondo».
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