domenica 19 maggio 2019
Il regista, già vittima di Pinochet, chiude la trilogia di documentari con “La cordigliera dei sogni”: «Grazie alle nuove generazioni oggi il mio Paese riesce a guardare al suo passato»
Un’immagine di “La cordigliera dei sogni” di Patricio Guzmán

Un’immagine di “La cordigliera dei sogni” di Patricio Guzmán

COMMENTA E CONDIVIDI

Cannes «Un Paese senza documentari è come una famiglia senza album di fotografie». La pensa così Patricio Guzmán, il più importante cineasta cileno – insieme ai più giovani Pablo Larrain e Sebastian Lelio – che coniugando come pochi sanno fare documentario e poesia, torna a riflettere sul tema a lui più caro, le atrocità subite dalla popolazione durante la dittatura di Pinochet, chiudendo dopo dieci anni con La cordigliera dei sogni, evento speciale al Festival di Cannes, la trilogia di lavori che mette in relazione l’acqua e le stelle, l’uomo e il cosmo, un bottone di madreperla e il genocidio di un popolo, il mistero dell’esistenza umana e gli orrori di un passato non ancora elaborato, le esperienze personali e la storia di una nazione, il particolare e l’universale. Dove aver esplorato il deserto di Atacama, a nord del paese, in Nostalgia della luce e la Patagonia, a sud, in La memoria dell’acqua, il regista, arrestato all’indomani del colpo di stato dell’11 settembre 1973, fuggito da Cile dopo due settimane di detenzione nello stadio di Santiago, rifugiatosi prima Cuba e poi in Spagna e in Francia, dove tuttora risiede, si concentra questa volta sulla maestosa spina dorsale che attraversa il Paese, la Cordigliera delle Ande, che non solo diventa una nuova chiave di accesso alla tormentata storia recente del Paese, ma anche la metafora di un sogno.

Le immagini che ci restituiscono l’imponenza e il mistero di una catena montuosa destinata a congiungere cielo e terra, a protegge i cileni, come una grande madre, ma al tempo stesso a isolarli, vengono mescolate alle testimonianze del cineasta e Pablo Salas, che dagli Ottanta in poi ha filmato preziosissimo materiale sulla repressione della dittatura e sulla resistenza dei cileni, e alle parole dello scrittore Jorge Baradit, che con i suoi libri offre importanti riflessioni sugli ultimi decenni del Cile. Guzmán traccia in questo modo un ritratto appassionato e commovente di una terra a lui diventata estranea, ma alla quale ha dedicato ben venti film in oltre quarant’anni di carriera. «Da giovani - racconta il regista, voce narrante del film quando eravamo impegnati a immaginare una nuova società, la Cordigliera non era abbastanza rivoluzionaria per noi». Solo successivamente il regista ha riflettuto su cosa rappresentino quelle montagne per i cileni, su quanti segreti nascontarda dano al proprio interno e di quanti avvenimenti siano state testimoni. Le Ande custodiscono schegge di meteore, frammenti dunque di pianeti lontani, ma le loro pietre che lastricano le strade di Santiago sono state bagnate dal sangue di migliaia di persone uccise dal regime, hanno conosciuto per prime i passi del terrore. La Cordigliera dunque nasconde anche gli echi di quella insensata violenza così come l’angoscia dello stesso regista che, perseguitato dal proprio passato, sogna di ricostruire la sua casa distrutta e ricominciare da capo, sperando che il Cile possa recuperare l’infanzia e l’allegria perdute. Il prezioso e fragile archivio di Salas utilizzato da Guzmán permette di ricostruire gli anni perduti e oscuri del Cile, la furia cieca di una repressione che identificava il nemico nella povera gente.

L’esercito non si è fermato davan- ti a nulla, neppure alle donne e ai bambini ai quali i manganelli spezzavano gambe e braccia. E se le immagini di repertorio molto raccontano di quello che accadeva tra le strade di Santiago, possiamo solo immaginare lo strazio dei campi di concentramento e delle camere di tortura. Nessuno ha pagato per quei crimini, negati, definiti errori invece di orrori. «Il vero trionfo della dittatura è stata la svendita del Paese» sottolinea Baradit, che denuncia le grandi ingiustizie sociali e l’enorme divario tra ricchi e poveri. Gli artisti dovrebbero essere i custodi della bellezza del paese, si dice nel film, ma molti dei luoghi più belli del Cile sono nelle mani di privati e la più grande miniera di rame, la grande ricchezza del Paese, è in mano a società straniere. «Fino a qualche anno fa i miei documentari erano molto controversi, programmati in tv a notte - dice il regista perché la gente non ne voleva più sapere dei desaparecidos, dei prigionieri politici, delle persone torturate e uccise a causa della dittatura. Ma dal 2015, da quando con La memoria dell’acqua ho vinto un Orso d’argento a Berlino, il pubblico si è dimostrato molto più interessato del solito, e il ministro dell’Educazione ha persino acquistato copie dei miei documentari da mostrare nelle università, nei licei e persino nelle scuole medie. Il mio Paese, che consideravo senza memoria, ha cominciato dunque, grazie alle nuove generazioni, a guardare al proprio passato, uscendo da un’amnesia durata a lungo».

Ma se per tanti ragazzi quello della dittatura è un tema di riflessione inedito, il regista non ha mai smesso di interrogarsi su un evento così drammatico da cambiare per sempre la sua vita e il rapporto con il proprio paese, sempre al centro del suo cinema. «Anche questo film mostra le connessioni tra uomo, natura e cosmo, ma le gigantesche e sconosciute montagne che sono al centro del progetto, sulle quali il sole deve arrampicarsi prima di tramontare, sono diventate la metafora dell’immutabile, di ciò che abbiamo perduto e di ciò che ancora vive in noi quando pensiamo di aver smarrito ogni speranza. Immergermi nella Cordigliera è stato come penetrare nelle mie memorie, dare inizio a un viaggio che potrebbe rivelare molti segreti della mia anima cilena».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: