Dire che la guerra dell’ex Jugoslavia, quadriennio di sangue e terrore che va dal 1991 al 1995, (con effetto finale e collaterale nello scontro bellico del 2001 nella Repubblica di Macedonia) abbia avuto inizio su un campo di calcio, a qualche storico potrebbe suonare come un inno nazionale stonato. Ma una volta letto il saggio
Dio, calcio e milizia dell’esperto di “mondo ultrà” Diego Mariottini, si ha quasi la certezza che, in quello scontro fratricida che ha portato alla disgregazione della Jugoslavia del maresciallo Tito, il calcio sia veramente al centro del villaggio dilaniato. La prima spinta rivoluzionaria del pallone balcanico si ebbe già al termine della Seconda guerra mondiale. Nel 1945, anno zero del calcio jugoslavo, si assiste a fusioni di club destinati a giocare un ruolo primario nel conflitto che si concluderà mezzo secolo più tardi. Nel 1945, infatti, l’Sk Jugoslavia diventerà la Stella Rossa di Belgrado, mentre l’Hsk Gradanski Zagabria 1911 (anno in cui a Praga, allora nell’Impero austro-ungarico come la Croazia, degli studenti universitari spalatini fonderanno l’Hajduk) si fonderà con tre realtà dalmate per dare vita alla Dinamo Zagabria. Ed è dallo scontro in campo e sugli spalti di queste entità, i serbi della Stella Rossa - alias “La Squadra” - e i croati della Dinamo, che la miccia dell’odio si accenderà una domenica della primavera del 1990. La scintilla venne sfregata una sera gelida e ferale del febbraio 1989 (nove mesi prima del crollo del Muro di Berlino), quando «Arkan varca i cancelli dello stadio Marakana di Belgrado, dove gioca la Stella Rossa, fa un tempo da lupi. Nevica, ma alcuni tra i Delije stanno soltanto aspettando il loro capo per incoronarlo re», annota Mariottini. Arkan, al secolo Željko Ražnatovic, ex “rapinatore di talento” con precedenti e arresti eclatanti in Svezia e in Olanda, è la feroce Tigre che nella Curva Nord dello stadio di Belgrado installa il quartier generale in cui procede ad arruolare i suoi miliziani, i Delije: il famelico gruppo ultrà già noto in tutta Europa per via delle loro scorribande da
Arancia meccanica, andranno a formare le prime linee della milizia, diventando le feroci Tigri di Arkan, addestrate per la conquista della «morente Jugoslavia, in cui il calcio sarà il catalizzatore della fine». L’inizio della fine avviene in quella missione punitiva contro il nemico croato architettata strategicamente il 13 maggio 1990: la trasferta di Zagabria nella tana della Dinamo e degli odiatissimi ultrà dell’opposta fazione, i Bad Blue Boys. Le immagini di quegli scontri, a colpi di spranghe e razzi che con i seggiolini delle tribune volano sul terreno di gioco trasformato in campo di battaglia, faranno il giro del mondo. Dalla curva degli ultrà serbi (circa tremila) si alzò funesto il grido «Uccideremo Tudman!», ovvero Franjo Tudman, l’uomo dell’indipendenza croata - fresco vincitore dalle elezioni politiche di quel 6 maggio a capo del suo partito Hdz , l’antagonista dell’allora leader dei serbi Slobodan Miloševic. Ma il grande protagonista quel giorno era sempre lui, la tigre Arkan: il regista occulto del blitz viene ripreso dalle telecamere mentre se ne sta “pacifico” a bordo campo, ammantato in un elegante doppiopetto blu e camicia bianca. Un travestimento (era solito girare in mimetica, anche ai matrimoni), così come tutta una messa in scena che prelude allo scontro totale, rimane quella partita che si concluse con l’invasione di campo di entrambe le tifoserie, un centinaio di feriti e decine di arresti per le vie di Zagabria posta sotto assedio. Ma il fermo immagine di quella maledetta domenica rimane la rabbia che improvvisamente assalì il nazionale croato e capitano della Dinamo Zvonimir Boban, il quale sferrò un calcio a un agente di polizia che stava picchiando un sostenitore della sua squadra. Per quell’entrata “a gamba tesa” l’altrettanto morente federcalcio jugoslava sospese Boban per nove mesi, ma il suo gesto di resistenza gli valse la medaglia d’onore e l’encomio popolare di “eroe nazionale”, anche se il calciatore (poi stella del Milan berlusconiano) minimizzò: «Semplice reazione a un’ingiustizia». Da quel giorno nella ex Jugoslavia nulla fu più uguale a prima e il calcio, «lo sport più bello del mondo – scrive Mariottini – si trasforma nelle mani di presidenti senza scrupoli e di sciacalli di Stato in un
parabellum senza pietà». Nel tragico 1991 - mentre Arkan va alla guerra con al seguito le sue truppe rimpolpate di ultrà sanguinari, gli Arkanove Delije (viaggiavano a bordo di Suv dotati di satellite con lo stemma della Tigre) - la Stella Rossa di Belgrado a Bari vinse la finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia e sconfiggendo i cileni del Deportivo Colo-Colo conquistò il titolo mondiale per club. Arkan e la sua milizia uccisero in Bosnia Erzegovina e in Croazia, spalancarono varchi all’esercito regolare serbo e fecero riaprire in Europa i cancelli dei lager. Nel giro di poche settimane, ventimila persone vennero imprigionate e molte giustiziate nei campi di concentramento di Bijeljina, Zvornik, Kamenica, Grbavica e Kozarac. I potenti della terra, allora assistettero indifferenti al funerale della Jugoslavia. Tra case ridotte a macerie e cadaveri sparsi, bambini abbandonati e donne violentate per le strade e i campi della penisola dirimpettaia dell’Italia, paradossalmente si continuò a giocare a pallone, e Arkan, pur non amando il calcio, su «commissione di Miloševic fa delle curve calcistiche quel che serve». Impossibile continuare a disputare un campionato jugoslavo unico. Così iniziarono a delinearsi le federazioni e i rispettivi tornei nazionali dei futuri Stati indipendenti di Serbia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Montenegro e poi Kosovo. La nazionale di calcio della Jugoslavia di fatto si sciolse alla vigilia degli Europei del 1992, in quanto «indesiderata». Al suo posto vi prese parte la Danimarca, che da ripescata scriverà la sua favola calcistica. Mentre nella ex Jugoslavia si consumava l’incubo quotidiano della guerra, i danesi approdarono in finale, superarono la Germania 2-0 e tra la sorpresa generale divennero campioni d’Europa. Quel titolo fu assegnato allo stadio Ullevi di Göteborg, la città in cui ebbe inizio la carriera criminale del giovane Ražnatovic-Arkan. Mentre a guerra finita si faceva la tragica conta delle vittime (circa 95mila caduti tra civili e soldati bosniaci, croati, serbi e altri. La maggioranza bosniaca musulmana, 63mila vittime), il “macellaio dei Balcani” Arkan contava il tesoro accumulato (oltre cinquecento milioni di euro, ora misteriosamente spariti) negli anni del conflitto. Parte di quel patrimonio lo aveva investito in attività illegali intraprese con la dilagante mafia slava, ma anche nella produzione discografica della moglie, la stella del turbo-folk Svetlana Velickovic in arte Ceca (il suo album cult del ’96 si intitola
Emotivna luda, “Emotivamente pazza”), e in una squadra di calcio: l’Obilic di Belgrado, del quale divenne il temutissimo padre-patron. Da società tradizionalmente di terza divisione, la formazione di Vracar – comune dell’hinterland di Belgrado – grazie alla spinta terroristica e corruttrice del suo patron («Segnare un gol all’Obilic non era salutare. Prima di ogni partita lo stadio si riempiva di uomini vestiti di nero, come le Tigri») nel giro di un anno passò dalla Serie B alla conquista del titolo nazionale serbo. Il totalitarismo, anche calcistico, in Serbia di fatto si è estinto tra il 2000 e il 2006, gli anni in cui sono avvenute le rispettive morti di Arkan e Miloševic. Ma i ripetuti scontri e la notte di follia di Marassi, innescata dagli ultrà di Belgrado, capeggiati dal truce Ivan Bogdanovic in occasione di Italia-Serbia (a Genova, ottobre 2010, gara di qualificazione degli Europei del 2012), dimostrano che, sotto la cenere di quella guerra incendiaria che si è consumata nella ex Jugoslavia, covano ancora scintille d’odio e di pericolosi nazionalismi, pronti a riesplodere, specie in questo tempo da ultimo stadio. Diego Mariottini
DIO, CALCIO E MILIZIA Il comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia Bradipolibri. Pagine 184. Euro 11,90