giovedì 6 settembre 2018
Il regista inglese porta in concorso a Venezia una pellicola sulla strage di Utøya, in Norvegia, del 2011 dell'estremista Breivik puntando soprattutto sulle storie dei sopravvissuti
Una scena di “22 July” di Paul Greengrass, racconto della strage di Utøya

Una scena di “22 July” di Paul Greengrass, racconto della strage di Utøya

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È uno degli attacchi terroristici più scioccanti degli ultimi anni ed è stato compiuto da “uno di noi”. Si tratta del massacro di Utøya, l’isola a pochi chilometri da Oslo dove il 22 luglio 2011 l’estremista di estrema destra Anders Behring Breivik sterminò 69 dei ragazzi che partecipavano a un campo estivo organizzato dal partito laburista norvegese. Poco prima aveva ucciso altre 8 persone con un’autobomba piazzata davanti al palazzo che ospita l’ufficio del primo ministro. Per un totale di 77 morti e centinaia di feriti. Una vicenda terrificante già portata sullo schermo dal U-July 22 di Erik Poppe e ora raccontata da un altro punto di vista da Paul Greengrass in 22 July, in concorso ieri alla Mostra di Venezia e disponibile su Netflix a partire dal 10 ottobre. Se infatti il film di Poppe raccontava in tempo reale e con un unico piano sequenza la strage sull’isola, quello di Greengrass, tratto dal libro della giornalista Åsne Seierstad, Uno di noi: la storia di Anders Breivik , dedica al massacro la prima mezz’ora del film per poi indagare sulle conseguenze della tragedia sulla vita delle persone coinvolte, spostandosi negli ospedali e nelle aule di tribunale e affidandosi al racconto di un superstite che diventerà poi uno dei testimoni del processo conclusosi con la condanna di Breivik, mai pentitosi del suo gesti, a 21 anni di isolamento, il massimo della pena previsto dal sistema giudiziario norvegese.

A interessare il regista infatti non è tanto sanguinoso attacco, quanto il ritorno alla vita dei sopravvissuti che trovano in se stessi e nelle rispettive famiglie la forza per affrontare traumi sia fisici che psicologici. Esemplare a questo proposito la scena in cui il protagonista del film, Vijar Hansse, testimonia in tribunale guardando in faccia l’assassino e ribadendo la propria scelta di vivere. «Io posso contare sull’amore della mia famiglia e dei miei amici, lui invece è solo e lo sarà per sempre», dice. «Mi sono interrogato a lungo sul livello di violenza da mettere in scena – spiega il regista – perché da una parte c’era la forte esigenza, sentita anche dai testimoni, di non edulcorare gli eventi, e dall’altro il bisogno di non provocare sofferenza nelle persone che hanno vissuto quella drammatica esperienza. Le scene scioccanti non mancano, ma i momenti di violenza esplicita sono pochi, perché il rispetto per il dolore altrui era la cosa più importante. Il cinema deve guardare con coraggio e risolutezza il mondo così com’è, ma non deve mai dimenticare di mettere al centro la nostra umanità, mostrando amore e meraviglia, trovando verità e bellezza anche nel racconto dei momenti più drammatici».

Inizialmente il regista pensava a un film sulla crisi migratoria e per questo aveva fatto molte ricerche a Lampedusa e nel sud Italia. «Ma più ci lavoravo – racconta Greengrass – e più mi rendevo conto che la paura dell’immigrazione e la stagnazione economica stavano provocando cambiamenti profondi nelle nostre politiche. L’estremismo sta dilagando in tutta Europa con conseguenze drammatiche e Breivik si considerava il portabandiera della rivolta dell’Occidente contro l’apertura delle frontiere e la società multiculturale. Ma il cuore del film sta nel modo in cui i norvegesi hanno reagito agli attacchi, soprattutto le famiglie travolte da tanta assurda violenza, un grande esempio di coraggio, dignità e attaccamento alla democrazia, che non possiamo dare per scontata, ma che dobbiamo difendere ogni giorno con la forza delle idee». Lo sottolinea nel film anche l’avvocato di Breivik quando il terrorista gli confessa che se tornasse indietro farebbe la stessa cosa. «Ma tu hai fallito, e se qualcuno ci attaccherà ancora, ci penseranno i nostri figli e i loro figli a batterli di nuovo». «Il film – dice Anders Danielsen Lie, che interpreta il difficile ruolo di Breivik – racconta una storia locale con un messaggio globale. L’estremista assassino era un lupo solitario, ma ha agito in un contesto ideologico molto preciso e purtroppo sono in molti a condividere le sue idee. La radicalizzazione politica e religiosa è un fenomeno che non dobbiamo smettere di interrogare se vogliamo davvero capire perché un ragazzo come tanti, uno di noi appunto, sia stato capace di un simile orrore».

Jonas Strand Gravli interpreta invece il giovane Hanssen colpito da ben cinque proiettili e impegnato in un lungo percorso di riabilitazione. «Ho parlato a lungo con Viljar, era importante ascoltare questa storia dalla sua voce. Volevo soprattutto onorare il suo coraggio, la voglia di tornare alla vita, la forza e la lucidità che ha avuto quando in tribunale ha testimoniato guardando in faccia l’uomo che l’ha quasi ucciso». La responsabilità di raccontare una storia che ha coinvolto centinaia di persone è forte. «La prima cosa che ho fatto – dice ancora Greengrass, che si è già occupato di drammatiche storie vere in Bloody Sunday, Captain Phillips Attacco in mare aperto, United 93, Green Zone – è stato chiedere il permesso ai parenti delle vittime e ai gruppi di sostegno. Senza la loro benedizione non avrei mai potuto realizzare questo film»: «La reazione dei norvegesi è stata un grande esempio di difesa della democrazia»

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