domenica 15 marzo 2009
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Al diciottesimo piano del grattacielo improvvisamente si scatenano le fiamme: è panico, la gente si accalca alle finestre per respirare mentre l’aria all’interno si fa sempre più pesante di fumo e il calore diventa insopportabile. C’è chi si prepara a saltare giù in un disperato tentativo di evitare il fuoco, quando alla sommità dell’edificio si apre una struttura da cui calano cabine che, manovrate da uno specialista, raggiungono il piano in fiamme e consentono alle persone di scendere in sicurezza. Potrebbe essere un film tra fantascienza e catastrofismo, un genere che andava molto soprattutto prima che certi disastri non si avverassero, ma in realtà è qualcosa di molto simile a una simulazione compiuta, peraltro senza potenziali vittime, su un grattacielo a Ramat Gan, sobborgo di Tel Aviv. Gli israeliani, notoriamente esperti in problemi di sicurezza, sanno che la prevenzione è preferibile alla gestione dell’emergenza. Le cabine, che – protette da pareti in materiale ignifugo – scorrono su rotaie esterne alla facciata e raggiungono le stanze isolate predisposte come stazioni dove ci si può rifugiare in attesa che arrivi il mezzo per evacuare il piano incendiato, sono un’invenzione presentata da Jonathan Shimshoni della società Escape, che le definisce 'scialuppe di salvataggio'. Un’immagine efficace: sono appese in alto, come le piccole barche di emergenza sulle navi, e calano per permettere alle persone di allontanarsi dall’edificio rapito dalle fiamme, come una nave che affonda è rapita dal mare. Il motivo che ha spinto a questa realizzazione è l’evento terribile e funesto del World Trade Center in fiamme: in quell’11 settembre del 2001 almeno duecento persone si sono gettate dalle finestre, tra chi stava ai piani superiori a quelli colpiti dagli aerei. È l’effetto del panico: se non ci sono vie di fuga possibili si sceglie l’impossibile. Il vuoto piuttosto che le fiamme: la decisione non è ragionata ma subitanea, dettata da un istinto di conservazione che in fondo sa che non c’è alternativa. È sempre stato così, anche dipinti che appartengono alla storia dell’arte raccontano comportamenti simili: per esempio l’Incendio di Borgo, che nelle Stanze di Raffaello in Vaticano raffigura il disastro che colpì il quartiere romano nell’anno 847, mostra gente che si lascia cadere dalle mura per sfuggire al fuoco. Solo che là gli edifici erano di due-quattro piani, non di centodieci. Certo, la probabilità che si ripetano incidenti o attacchi come quello contro le Torri gemelle sono, auspicabilmente, poche; tuttavia da quel tragico momento sono sorti molti interrogativi che riguardano la sicurezza e la gestibilità dei grattacieli in condizioni di emergenza. Il primo problema è di carattere strutturale (si ritiene che le Torri siano crollate perché la struttura in acciaio cedette al calore dopo meno di un’ora dagli scoppi): a questo si può porre rimedio nelle nuove edificazioni garantendo che i materiali presenti delle costruzioni siano prevalentemente ignifughi e soprattutto isolando le strutture portanti. Vi sono anche ascensori antincendio: dotati di un circuito elettrico indipendente, scorrono entro un vano autonomo e isolato, e agli imbarchi e sbarchi hanno camere sicure con porte tagliafiamma che tengono lontano il fuoco. Ma sono rari: occupano molto spazio e questo ha un prezzo. L’ idea israeliana scavalca il problema dello spazio all’interno degli edifici e può essere applicata alle strutture esistenti prive di ascensori antincendio. Secondo quanto viene riferito, una struttura di questo tipo può operare cinque cabine esterne ognuna delle quali può ospitare venticinque-trenta persone, consentendo di evacuare ogni otto minuti circa centocinquanta persone. «Se nel novembre scorso nell’hotel Oberoi di Mumbai – ha detto da Shmishoni – fosse stato installato questo sistema, le teste di cuoio indiane avrebbero forse potuto salvare un maggior numero di ostaggi».
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