venerdì 16 novembre 2012
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La storia del Novecento è segnata dalla violenza dei totalitarismi (le moderne "religioni politiche") e dallo sviluppo del concetto di democrazia. La Grande guerra segna il tramonto di un’epoca – la civiltà borghese – e la seconda guerra mondiale quella dei fascismi e nazismo. Dopo un breve intervallo e nonostante la creazione delle Nazioni Unite, riesplose il conflitto anche se questa volta "freddo"; ma il crollo del muro di Berlino segna definitivamente la fine del bipolarismo e del totalitarismo comunista (almeno in Occidente) con il "recupero alla Storia" di un miliardo di persone. Ciò non significa la "fine della Storia", né di per sé garantisce l’affermarsi di un lungo periodo di pace perché nuove tensioni si stagliano all’ombra di una globalizzazione iper-competitiva se non selvaggia. La guerra è una presenza costante nella convivenza umana, mentre la pace sembra residuale con brevi apparizioni e, normalmente, dopo i conflitti che l’hanno rimessa in causa. I due termini non si escludono del tutto anche se sono opposti; sembrano indissolubilmente legati in qualche modo l’uno all’altro. Maritain ne è profondamente cosciente e dal suo esilio-osservatorio americano negli anni del secondo conflitto mondiale, introduce una spiegazione terribile sull’apparente prevalere della guerra perché «dans l’histoire humaine l’esprit est toujours en retard sur la matière et sur l’événement» (La voix de la paix, in Œuvres complètes IX, pag. 152). Allora la "realtà effettuale", lo scontro di poteri e di potenze ci accompagnerà sempre e la pace non sarà che un aggiustamento delle posizioni per prepararsi meglio agli scontri futuri? Insomma nel profondo della storia umana c’è più spazio per il conflitto che per la pace. Perché gli uomini sembrano incapaci di trovare forme di cooperazione durature o almeno di coesistenza pacifica? Certo a questa domanda gran parte delle teorie delle relazioni internazionali risponde affermativamente, ma pur condividendone la fenomenologia, Maritain introduce altre spiegazioni (ed altre soluzioni). Mentre tali teorie sono focalizzate sugli Stati e sulla loro convivenza (impossibile, a lungo andare, perché il più forte cercherà di prevalere sul più debole), Maritain ritiene che, nonostante il "ritardo dello spirito", la storia umana non sia condannata a subire sempre il prevalere del più forte, che le relazioni tra i popoli possono essere contrassegnate dal rispetto della persona umana se questo divenisse un patrimonio comune, che insomma è possibile superare l’"anarchia" e puntare ad un "ordine internazionale" basato non sulla violenza ma sulla giustizia. Per offrire un fondamento alla pace, Maritain ritiene necessario anzitutto rinunciare all’idolo e all’artificialità della sovranità statuale (inventata dagli Stati moderni per formare una coesione popolare attorno alla figura del sovrano) e afferma che lo Stato è "vuoto", non ha altra consistenza che la forza e i rapporti tra gli Stati non sfuggono alla legge della «domination suprême et la suprême amoralité» (L’homme et l’Etat, O.C. IX, pag. 181). Bisogna invece riconoscere che gli Stati esistono per volontà dei popoli e sono loro vicari, non i loro padroni. Nel quadro della odierna globalizzazione inoltre le potenze statali (almeno nella grande maggioranza) vengono sostituite dai poteri dell’economia e della finanza, spesso in conflitto tra loro, senza alcun mandato democratico e spesso marginalizzando le istituzioni pubbliche di cooperazione cui si è dato vita nello scenario globale. In un’era di globalizzazione, secondo Maritain una pace duratura sembra possibile solo con un accordo tra i popoli per costituire un’Autorità mondiale che vegli sulla pace. Certo, non sarà per domani (potrà stupire l’assenza di riferimenti all’Onu e alla Comunità Europea) e Maritain invita a lavorare alle "preparazioni lontane", a mutamenti antropologici e sociali profondi, il primo dei quali riguarda le condizioni per la promozione dei diritti umani e per la presa di coscienza di un bene comune universale. In questo senso fondamentale è «le rôle du spirituel à l’égard du progrès de l’humanité» (Les conditions spirituelles du progrès et de la paix, Mame, Paris, 1966, p. 64). L’Enciclica «Pacem in Terris», di cui ricorre il prossimo anno il cinquantenario, sviluppa compiutamente il pensiero del filosofo francese. La pace – e assieme la democrazia – non sono estranee alla natura umana, e grandi sforzi dovranno essere compiuti affinché la storia umana non sia condannata ad un equilibrio permanentemente instabile tra pace e guerra.​
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