mercoledì 3 agosto 2016
 GOETHE o la difficile arte della perfezione
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Non so se sia giusto leggere Goethe con lo scopo di «pratica utilità per la vita di ciascuno», come scrive Rainer Matthias Holm-Hadulla in Passione. Il cammino di Goethe verso la creatività. Una psicobiografia (nella cura attenta di Antonio Staude, Mimesis, pp. 452, euro 27). Ma è certo che letteratura, poesia e arte, queste frivolezze più inutili del mondo (a maggior ragione le vette che ne offre Goethe), siano non solo benefiche, ma perfino necessarie per il nostro nutrimento 'organico'. Non siamo un fascio di entità psicofisiche alla perenne ricerca di un’unità? Non continuiamo a interrogarci sulla nostra identità? Soprattutto dopo il 1825, negli ultimi anni, Goethe incominciò a riflettere sul concetto di entelechìa, che onnetteva la perfezione raggiunta nelle possibilità della propria natura (secondo Aristotele) con il suo riconoscimento. Mentre descriveva l’importanza di abbracciare la propria «vera natura originale » ( eigentliche Originalnatur), come fa Wilhelm ne Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister (1829), sempre più indicava un fine della persona, un senso etico, il raggiungimento di una completezza ottenuta nelle vicissitudini e nei traumi. Alcuni artisti e poeti erano per natura supreme entelechìe, come Dante e Raffaello nel quale «pensiero e azione erano ugualmente perfetti»; altri dovevano lottare per manifestarle. 

 

Le dinamiche della natura, della psiche, dell’arte si corrispondono. Nei movimenti della vita, dello spirito, dei rapporti umani, degli elementi, si riproducono gli stessi moti. Goethe applica coerentemente il principio dell’alterno gioco di polarizzazione ( Polarität) e ascesa ( Steigerung), la sistole/diastole che nella natura spinge verso forme sempre più complete.

 

Come sotto l’impulso del creatore, a imitazione del suo movimento inarrestabile, l’immaginazione ha potere trasformante. Nel Faust II (1831), raccogliendo l’eredità del mondo classico, Faust strappa Elena, la «forma delle forme», alle Madri custodi del Museo dell’Essere, mediatrici tra i due estremi dell’Essere e della Realtà: esse sovraintendono alla «formazione e trasformazione» ( Gestaltung, Umgestaltung), al «gioco eterno della mente eterna», alimentando e rigenerando «la vita continua della natura». 

 

Faust non riuscirà a mantenere congiunti i due estremi. L’Elena strappata alle Madri è impossibile. Allora Faust dovrà compiere la discesa all’Ade, chiedere a Persefoneia, la regina dei morti, custode del Museo del Passato, la figura storica di Elena, che vi è conservata. Quando Euforione, figlio di Elena e di Faust precipita nella morte, Elena deve seguirlo. La resurrezione di Elena è stata brevissima, ma tornando all’Ade lascia a Faust la sua veste e il suo velo candido, che si sciolgono in una nube.

 

La nube di Elena, attraversata ancora dai raggi di quel sole ai quali Goethe paragona la dea, media tra la presenza del divino e ciò che ne possiamo trattenere. Resta come tramite che condurrà Faust, attraverso la memoria dell’assoluto, alla salvezza finale, all’elevazione verso la Madre Gloriosa, come canta il «Chorus mysticus» del finale. 

 

Ne Gli anni di viaggio diWilhelm Meister, che Kierkegaard elesse a modello di Aut aut e degli Stadi sul cammino della vita e che sono stati considerati il prototipo del romanzo moderno, dell’opera aperta come il divenire dell’esistenza, Goethe indica il senso della scelta di vivere nel presente fatta dai Rinuncianti: non è dovuta soltanto alle nuove limitazioni del mondo moderno, ma alla condizione reale del tempo dell’uomo: quel 'finito', dove Cristo ha immesso l’infinito con la propria morte e resurrezione sulla croce. L’entelechìa ha qui il suo culmine nella rivelazione del divino nell’uomo, con Cristo mediatore e mistero supremo. Il mistero dell’Incarnazione e quello della Croce sono «i profondi misteri nei quali sta nascosta la divina profondità del dolore». 

 

Solo ne Gli anni di viaggio Goethe pronuncia parole che lo avvicinano a Dostoevskij, alla venerazione per tutta la tenebra che giace nell’uomo come nelle profondità dell’universo. Cristo ha insegnato a «riconoscere l’abiezione e la povertà, il dileggio e il disprezzo, la vergogna e la miseria, il dolore e la morte come divini, anzi per considerare il peccato stesso e il delitto non come impedimenti, ma onorarli e amarli come stimoli alla santità». Anche nel regno dell’arte Cristo è l’immagine più alta nella quale l’uomo deve rispecchiarsi: «Dalla tua mano scorrano/ forme su forme, molteplici e belle,/ sàziati dell’immagine dell’uomo,/ perché un Dio vi si è mutato». Se è ingenuo ridurre Goethe a modello insegnativo, Holm-Hadulla ha ragione nell’indicarlo come esempio della capacità di trasformazione del dolore a opera della poesia, che porta le sofferenze al diapason in una sorta di combattimento per una felicità trasposta. Gli ultimi due secoli hanno voltato le spalle a Goethe, fraintendendo l’immagine di serenità olimpica che sembrava trasmettere. Preferiscono il tormento visibile o il suo opposto: la riduzione delle passioni.

 

Non capiscono l’eredità del classico, il senso dell’entelechìa, l’idea di conciliazione e di catarsi che propone la poesia per una «vita che gioisce della vita... e l’attimo sarà l’eternità» come Lascito (1829), citata da Holm-Hadulla, o come Novella, dello stesso anno, dove si parla anche di forze selvagge, e del male domato. Al flauto e al canto di un bambino il leone diventa agnello perché «miracoloso è l’amore/ che si svela in preghiera».

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