sabato 21 dicembre 2013
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Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere […] Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent’anni della mia vita. L’amavo troppo la mia patria, non la tradite […] Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia […] .A te Papà vada l’imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare […]. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà».Così Giancarlo Puecher nella sua lettera-testamento, prima di essere fucilato dai fascisti nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1943 a Erba, nel comasco. A settant’anni da quell’esecuzione avvenuta all’inizio della Resistenza, Giuseppe Deiana, presidente del Centro Comunitario Puecher di Milano, manda in libreria una meticolosa biografia del ragazzo partigiano (quasi mezzo secolo dopo quella di Gianfranco Bianchi, valorizzata negli anni Ottanta anche da Giacomo de Antonellis). E si tratta di molto più che di un nuovo profilo dedicato al ventenne «ribelle», indicato come modello a più d’una generazione senza memoria.
Il libro, infatti, si dilata nei suoi intenti storici – e di pedagogia civile – alla vicenda di Giorgio Puecher, tranquillo notaio liberale ma appunto colpevole di essere padre di Giancarlo, deportato a Mauthausen dove morì di stenti a 57 anni il 7 aprile 1945. Così sopra queste pagine, fitte di citazioni da documenti e testimonianze (Nel nome del figlio. La famiglia Puecher nella Resistenza, Mursia, pp. 498, euro 24), si alza la tragedia di una famiglia borghese distrutta dal nazifascismo e degna, senza essere scalfita dai revisionismi nel segno dell’«anti-antifascismo», del più ampio riconoscimento: per aver dato concretezza a forme che restano a fondamento della Costituzione e delle istituzioni democratiche. Questo detto senza enfasi retorica, ma nella consapevolezza di due destini di morte, esiti di esperienze individuali – la militanza partigiana e il vissuto concentrazionario – che legano figlio e padre.I Puecher vivevano a Milano, ma a causa dei bombardamenti angloamericani e continuando a mantenere rapporti con la metropoli erano sfollati nella loro villa di Lambrugo, in Brianza. Qui, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, maturò su convinzioni etico-civili – radicate nell’educazione familiare e nella frequentazione di figure come l’avvocato Luigi Meda o il servita padre David Maria Turoldo più che su motivazioni ideologiche – la scelta partigiana di Giancarlo Puecher, fondatore di un gruppetto autonomo (meno di una ventina di amici fra i quali, come cappellano e amministratore, il parroco di Ponte Lambro don Giovanni Strada, e come comandante l’alpino Franco Fucci).
Solo due i mesi che videro l’azione del giovane idealista cattolico, dopo la scelta di opporsi al fascismo «per il bene patrio». Una vita, la sua, spezzata alla conclusione di un processo allucinante, imbastito come atto di rappresaglia dopo l’uccisione da parte di un gappista di due fascisti, da un improvvisato tribunale militare straordinario, con capi d’accusa praticamente inventati ad esecuzione avvenuta: come riconoscerà la successiva «riabilitazione giudiziaria» che certificherà la folle arbitrarietà dei carnefici, decisi a cancellare la passione civile di Giancarlo eliminando la sua vita.Una passione che sarà l’unico motivo dell’arresto, a Lambrugo il 13 novembre 1943, il giorno dopo la cattura del figlio, di Giorgio Puecher. Liberato il 17 gennaio 1944, ma incarcerato nuovamente il 15 febbraio successivo, il notaio Giorgio fu mandato da San Vittore al campo di Fossoli e poi a Mauthausen.«Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita, nessuno l’avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla. In questo momento i "saggi di dopo" dove sono? Cosa fanno? [...]Qui hanno inventato la morte in serie, non c’è scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste negazioni, queste infamie, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare».Queste, secondo le memorie di Mino Micheli, le parole pronunciate da Giorgio nei giorni prima della morte nel lager. Insomma una storia umanissima che torna, qui, nell’eco di un inno ai valori più puri. Eco che non arriva da due santini da martirologio laico o religioso, ma da due uomini che pagarono con il prezzo più alto – e c’è ben poco di retorico – la loro adesione innanzitutto morale alla Resistenza.
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