monsignor Giuseppe Maria Palatucci
Il 31 marzo del 1961 moriva Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna, diocesi oggi accorpata con Salerno. Compagno di seminario di padre Massimiliano Kolbe, rettore del Collegio “Serafico” di Ravello, fondatore della rivista francescana Luce serafica, monsignor Palatucci apparteneva a una famiglia legata a san Francesco, come il paese natale (Montella, in provincia di Avellino) ove, nel monastero di San Francesco a Folloni, riposano oggi ai lati dell’altare, oltre a monsignor Palatucci, i due fratelli francescani Antonio e Alfonso. A completare il quadro un altro Palatucci loro parente, Ferdinando, in epoca più recente vescovo di Nicastro e di Amalfi-Cava. Ma a portare alla ribalta monsignor Palatucci, come protagonista positivo di una pagina fra le più buie della nostra storia, è la presenza, a Campagna, di un campo di internamento destinato ai perseguitati di religione ebraica. Una storia divenuta, in realtà, di accoglienza proprio grazie, soprattutto, alla sua opera, tanto che per andare in aiuto degli internati il vescovo si privò di tutto, lasciando loro anche le ultime cose, nei giorni della Settimana Santa che ne precedettero la dipartita, al punto che non fu trovato, per la vestizione post mortem, nulla oltre una vecchia maglia rattoppata da mani maldestre, con tutta probabilità le sue. Nel carteggio custodito presso il convento di San Lorenzo maggiore a Napoli c’è traccia di un’attività estenuante portata avanti dal vescovo per venire incontro alle richieste anche del singolo internato, sollecitando altri presuli, o il ministero dell’Interno, o lo stesso Vaticano. Ed è soprattutto il ruolo della Santa Sede sotto Pio XII a emergere in modo inoppugnabile. Il vescovo manda prima in missione a Roma il canonico della cattedrale don Alberto Gibboni, per chiedere aiuti economici, e questi, dopo aver parlato con monsignor Montini, al tempo giovane sostituto della segreteria di Stato, si dice sicuro che per Campagna si farà «come per Genova» con il cardinale Boetto. Poi, come una serie di missive documenta, gli aiuti arrivano davvero ed è significativo che in quella allegata al primo assegno di tremila lire il cardinale Maglione, segretario di Stato, il 2 ottobre 1940, chiarisca che «l’Augusto Pontefice» desidera che questo denaro sia «preferibilmente destinato a chi soffre per ragioni di razza». Più volte sarà lo stesso Maglione, o Montini, a inviare altri assegni, seguiti da lettere di ringraziamento, e nuova caritatevole petulanza, da parte del vescovo. Eroico si rivelerà l’intero paese lasciando senza “prede” i tedeschi in fuga, che giunti al campo di internamento troveranno davanti alle porte degli internati la dicitura: «Trasferito con ordine di servizio», mentre in realtà erano in fuga nei boschi protetti dalla popolazione, complici i poliziotti. Nelle missive del vescovo tante le tracce della complicità operativa con il nipote, il commissario Giovanni Palatucci, responsabile dell’ufficio stranieri di Fiume, che non di rado – con l’aiuto di Epifanio Pennetta, dirigente del Viminale di origini irpine – riuscì a far destinare a Campagna, dove sarebbero stati al sicuro, cittadini ebrei della città. «Dalle sue mani venivano alle mie», raccontò monsignor Palatucci invitato a Ramat Gan, in Israele, nel 1953, a commemorare, insieme al fratello padre Alfonso, la figura del nipote nel frattempo morto a Dachau, dove era stato deportato. Monsignor Palatucci in quell’occasione parlò di una somma di «circa centomila lire» in totale inviata dalla Santa Sede. Organizzata proprio dagli ebrei fiumani che avevano beneficiato a Fiume dell’opera del commissario, la cerimonia precedette di un paio d’anni la proclamazione di Giovanni Palatucci Giusto fra le nazioni da parte dello Yad Vashem. Ora, passato il tempo, scomparsi i testimoni, i detrattori di recente sono arrivati ad accusare Palatucci per i 412 fiumani deportati ad Auschwitz, che non vollero o non poterono scappare, trascurando il fatto che la comunità ebraica della città ne contava più di 1.500 e che, dunque, gli scampati sono più di mille, solo a Fiume. Fingendo di ignorare che i numeri più imponenti di salvati riguardarono, in quella città di confine, cittadini in fuga, a migliaia, dal regime ustascia di Ante Pavelic, per i quali nessun documento si può rinvenire oggi, oltre le testimonianze orali, per il solo fatto che quelli che produceva Palatucci erano in larga misura falsi, da far sparire appena possibile. Protetto dall’extraterritorialità della Curia l’archivio di monsignor Palatucci, al contrario, ha conservato traccia di ogni cosa. Come la punta di un iceberg di un’opera imponente che vide impegnate in stretta correlazione uomini di Chiesa, organizzazioni ebraiche come la Delasem, funzionari compiacenti e uomini di buona volontà.