sabato 4 settembre 2021
Tokyo 2020, l’edizione record per la spedizione azzurra: 69 medaglie paralimpiche più 40 olimpiche fanno 109 podi
Gli azzurri che fecero l’impresa Italia da “109”, anzi 110 e lode
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Non è quello che ti è successo a definirti: è quello che fai, è come lo fai, sono le persone con le quali lo fai. Le Paralimpiadi, in questo senso, raccontano tutto e non mentono: non ci sei solo a causa di ciò su cui non hai avuto possibilità di incidere, ma perché ha meritato di esserci. Quello sei tu, la tua storia non è ciò che non hai, ma ciò che hai ottenuto. E questo va al di là delle 69 medaglie sin qui conseguite, dall’oro, l’argento, il bronzo conquistato o il podio sfumato.

GIOVANNI ACHENZA

Nel nome di Alex Zanardi

Un incidente sul lavoro, la rovinosa caduta da una scala, la perdita dell’uso delle gambe: la vita di Giovanni Achenza, artigianato sardo di Oschiri, cambia nel 2003. Abituato a lavorare dieci ore al giorno, d’un tratto gli erano impedite anche le cose più semplici, ma aveva già un team alle spalle, la sua famiglia: la moglie Costanza, che lasciò anche il lavoro per spronarlo e stargli accanto, e le figlie che, bambine, un giorno lo invitarono ad ingegnarsi per uscire in bicicletta con loro. Tant’è: bisogna ingegnarsi. Risultato: bronzo a Rio e bronzo a Tokyo nel paratriathlon. Nel tratto di handbike, ha corso con le ruote della bici di Zanardi, che la moglie di Alex ha voluto dargli.

ALBERTO AMODEO

Non scriveranno più A.A.

Otto anni fa le sue iniziali finirono sui giornali, nelle pagine di cronaca nera. Un gioco pericoloso a una festa di compleanno in una cava, l’imprudenza di un adulto, una ruspa che lo travolge e lo intrappola: 14 bambini feriti, la sua gamba amputata a nemmeno 13 anni, quando è ancora tutto da scrivere, quando fa più male. Puoi abbatterti, sarebbe comprensibile. O puoi tornare sui giornali, qualche pagina più in là, con nome e cognome: A.A., ora maggiorenne, è Alberto Amodeo, argento paralimpico nei 400 stile del nuoto.

SIMONE BARLAAM

Papà e mamma a bordovasca

Mamma Claudia («una macchina da guerra») in ospedale disegnava squali, e quanti ne ha fatti, papà Riccardo si è inventato per lui il pesce combattente: ne ha tratto un documentario, e quel pesce per qualcuno – la nuotatrice Arianna Talamona – è diventato un tatuaggio. Nessuna pietà per la gamba più corta. C’era nel viaggio in bici con papà da Parigi a Londra, c’era nell’anno di studio in Australia, c’era in vasca a Tokyo e s’è fatta sentire. Un oro, due argenti, un bronzo.

FRANCESCO BETTELLA

Dall’oratorio di Chiesanuova

Due argenti a Rio 2016, due bronzi a Tokyo 2020 su 50 e 100 dorso classe S1, quella della tetraplegia completa che a Parigi 2024 sarà eliminata dal programma gare, scelta incomprensibile per una Paralimpiade. Ingegnere biomeccanico, affronta la disabilità anche nello studio: nella tesi lavorò sulle modifiche a una carrozzina per il rugby paralimpico, progetto per il quale ottenne una borsa di studio. È impegnato nel consiglio pastorale ed educatore presso la parrocchia di Chiesanuova, dove sono volontari anche papà Mauro e mamma Cristina, perché dare l’esempio non è solo una frase fatta.

CAROLINA COSTA

Bronzo nel nome del padre

Franco, maestro di kendo, l’ha messa sul tatami da bambina. Mamma Katarzyna, che di cognome fa Juszczak e prese parte alle Olimpiadi di Barcellona nel judo e Atene nella lotta, le ha insegnato lo spirito olimpico. Ci sarebbero tutti gli elementi per una grande carriera. Ma papà muore nel 2006 e a Carolina, dieci anni più tardi, viene diagnosticato il cheratocomo, malattia degenerativa della vista. L’assenza e la rabbia, stimoli per una rivincita. Un bronzo nel nome del padre.

ANTONIO FANTIN

Oro al bimbo che ero

«Questa medaglia va all’Antonio piccolo, che ci ha sempre creduto, e soprattutto a mamma Sandra, che quando Antonio piccolo non voleva andare in acqua, lo portava ogni giorno in piscina», questo nel giorno dell’oro nei 100 stile S6, il primo ringraziamento in diretta tv del 20enne nuotatore bibionese è stato per la madre e per quei giorni in cui serviva qualcuno a fargli forza. Perché ne vale sempre la pena.

CARLOTTA GILLI

Arrendersi non è mai un’opzione»

L’epigrafe della spedizione azzurra alle Paralimpiadi di Tokyo porta la sua firma. «Arrendersi non è mai un’opzione», il suo motto, magari non originale ma perfetto per le storie esemplari di chi vi ha preso parte. Il suo mondo a colori inizia ad oscurarsi da bambina. Mamma e papà se ne accorgono, la diagnosi è crudele: malattia di Stargardt, una retinopatia degenerativa. Ma in acqua, tutto è più blu. Bracciata dopo bracciata, arrendersi mai: vent’anni, esordio paralimpico, due ori e altre tre medaglie.

XENIA PALAZZO

Fino a Tokyo con Misha

Giovanni, dipendente di una casa farmaceutica, e Nadejda, una ragazza russa già professionista nella pallanuoto, vivono la loro storia a Palermo, dove nascono quattro figli: Xenia (1998), Sasha (1999), Misha (2002) e Masha (2005). Una bella famiglia, unita, ampia, ma per Xenia, affetta da disabilità intellettiva e relazionale, e Misha, da autismo tipico, la strada è in salita. C’è da prendere una decisione per migliorare la qualità della vita di tutti. I Palazzo si trasferiscono a Verona e l’acqua, che già era l’elemento naturale dei figli, ne diventa l’alleata. Xenia - quattro medaglie - e Misha hanno preso parte a Tokyo 2020. Hanno vinto. Insieme.

VERONICA YOKO PLEBANI

Una vita da romanziera

Una meningite fulminante a 15 anni, nel pieno dell’adolescenza, anno 2011. La tenacia, certo, e i giorni bui. Guardare te stessa, trovarti cambiata, riscoprirti bella, più forte, con le cicatrici che sono le pagine di un romanzo (Fiori affamati di vita, Mondadori) le protesi un capitolo. Si può fare. Cosa? Qualificarsi nello snowboard alle Paralimpiadi invernali di Sochi 2014, nella canoa a Rio 2016, nel triathlon a Tokyo. Se puoi farlo, beh, allora esagera. Bronzo. Un libro Veronica – che di secondo nome fa Yoko – l’ha già scritto, quest’altro si scrive da solo. E Yoko, col suo nome che richiama il sole, ha imparato a splendere.

BEBE VIO

La leggenda continua

Bebe Vio ha vinto anche stavolta. Non solo per l’oro individuale e l’argento nel fioretto a squadre, ma reagendo all’infezione che, ad aprile, le ha fatto rischiare una nuova amputazione, persino la morte. Lo ha raccontato solo a medaglia conquistata, per non crearsi alibi, e non ha smesso di sorridere, perché sempre lì si torna: quello che ti succede e quello che fai, anche per gli altri. Da art4sport, la onlus nata dalla sua famiglia, all’ispirazione che porta nelle case di chi la vede in tv. La scintilla, sul letto di casa, l’illuminazione di papà Ruggero, quel «la vita è una figata» che è il più fedele degli autoritratti.

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