lunedì 11 febbraio 2013
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Nell’ieri l’altro che pure sembra preistoria, talvolta addirittura scordata deliberatamente, giusto per non arrossire, il processo penale italiano (non che quello civile fosse da meno, quanto a durata pluriennale, ma, nel campo penale, era in giuoco la libertà personale) lo guardavamo, noi e pure gli stranieri, come un’anomalia da eliminare quanto meno per decenza. Avvocati e magistrati vivevamo serrati entro sopravvivenze in contrasto con principi fondamentali al vivere civile. Le istruttorie interminabili chiuse nella segretezza assoluta, l’inquirente che agiva come nascosto, indagando senza contraddittorio, erano un dato consolidato da anni, tant’è che nella scarsa attenzione che la letteratura italiana di quegli anni prestava all’amministrazione della giustizia, in Rubè di Borgese, ad esempio, il ruolo del difensore era quello di «mettere pulci nelle orecchie del giudice istruttore». Nient’altro. Carcerazioni preventive annose – che anche una successiva pronuncia di proscioglimento non riuscivano a lenire – erano più che frequenti. Come lo erano i ribaltamenti di condanne negli ulteriori gradi del giudizio. Vite stroncate per sempre. Se la giustizia fa pauraIl Siamo tutti in libertà provvisoria di un film di quell’epoca è la testimonianza di un timore diffuso, la paura d’incappare – innocenti – nelle maglie dell’amministrazione della giustizia e uscirne stritolati. Yves Montand raccontava dell’editto di un sultano che aveva condannato a morte tutti i cammelli. E questi, quindi, si erano dati alla fuga. In mezzo a loro, c’era un coniglio che, alla domanda: «Perché fuggi visto che non sei un cammello?», obiettava: «Ma quanto tempo ci vorrà per dimostrarlo?». Le cose, come si sa, sono cambiate ed oramai il processo penale italiano rispetta in linea generale le regole di un dovuto processo legale. Abbiamo, si sa, mutuato dall’area delCommon-Law le norme fondamentali, in ordine almeno alla formazione della prova. Tuttavia, un sistema probatorio ha a monte un’ideologia e, nel caso delle recezioni che abbiamo operato, questa ideologia all’origine è basata sulla veritas probabilis, una verità risultante dalla dialettica degli opposti punti di vista, non dunque una verità assoluta. In questa ottica, il giudice non è cercatore di verità e quelle necessità che da noi sono sottese al bisogno di non disperdere elementi di prova sono per lo più disattese. (… ) È mutata la tecnica probatoria ma è rimasta ferma la concezione non retorica della verità come valore assoluto. Nel nuovo assetto normativo, custodie cautelari di grande durata non sono possibili. Ma la pena prescinde dalla riduzione dell’imputato in cattività: è consustanziale alla pendenza del processo. Più questa pendenza dura, più l’afflizione aumenta. Non è raro, in effetti, a processo concluso – anche favorevolmente all’imputato – che questo non si dia pace, rivisiti momento per momento le fasi e tema per l’avvenire. Si potrebbe dire scottato dalla giustizia. Il che non è cosa da poco in un ordinamento democratico. Così Orazio Mezzio, durante il lungo corso di una istruttoria caratterizzata da intercettazioni telefoniche e ambientali, a sera, ripercorre le tappe dell’opera sua come a trovarvi conforto. Bisogna prestare attenzione alla sua testimonianza, trarne motivo per una meditazione serena sulla sofferenza che genera il processo, specie quando questo si protrae a lungo nel tempo. Si anticipa nel riflesso sociale, una pena non ancora comminata e magari, poi, del tutto esclusa. (…) Doglianze simili sono moniti che dovremmo tenere presenti: una vicenda come questa può distruggere una reputazione, una vita.
La «Primula rossa»? Cosa difficile da valutare una intercettazione di conversazioni tra presenti o lontani: da Polonio dell’Amleto al Comneno narrato dalla figlia Alessia nella vicenda della prova raccolta a carico del capo dei Bogomili, via via alle cosiddette tavole di ascolto nelle carceri e altrove, un discorso captato abbisogna d’interpretazione: il rapporto tra la parola e la cosa, per lo meno. Il contesto. Ricordo nelle migliaia di pagine degli atti istruttori del processo per la strage di via Fani, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Moro, la trascrizione di una conversazione telefonica (intercettata) tra due monsignori. Nel testo, uno dei due chiama l’amico «Primula rossa» e immaginatevi il gran subbuglio conseguente. Ben riguardate le cose nel contesto di quella relazione l’epiteto era null’altro che la constatazione della multiforme lecita attività di uno dei due religiosi. Questo mondo così profondamente permeato di elettronica abbisogna di limiti per controbilanciare il dominio di nuovi mezzi terribilmente invasivi. Ne va della libertà personale. Forse, ne va anche del bilancio statale a causa dell’alto costo del vasto impiego dei mezzi d’intercettazione. Anche se, forse più che altrove, il nostro Paese paga il prezzo del radicamento diffuso della criminalità organizzata per combattere la quale le intercettazioni sono essenziali. Questo volume di un sindaco (è bene tenere a mente questa veste perché i problemi dì libertà chiamati in causa dalla vicenda attengono proprio all’espletamento dell’incarico) è la condensazione nero su bianco di un annoso condizionamento, una sofferenza con dentro l’animo la coscienza della propria rettitudine, e il lento maturare del convincimento di un’ingiustizia subita.
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