venerdì 14 ottobre 2022
Una mostra di disegni, oggetti e dipinti indaga il rapporto del grande artista con gli oggetti e l’immagine della natura in relazione allo splendore della corte dei Gonzaga
Brocca a forma di mostro marino realizzata da un orefice salisburghese su progetto di Giulio Romano

Brocca a forma di mostro marino realizzata da un orefice salisburghese su progetto di Giulio Romano - Gabinetto fotografico degli Uffizi

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"La forza delle cose", titolo della mostra (Palazzo Te, fino all'8 gennaio) che colloca immediatamente Giulio Romano oltre la sfera delle arti decorative per troppo tempo considerate “arti minori”, è riassunta in una definizione utile alla promozione pubblicitaria, ma per una volta pertinente, quella di designer. Naturalmente, non dobbiamo immaginare Giulio come se stesse inverando anticipatamente lo slogan modernista «dal cucchiaio alla città». Siamo in un’altra epoca, in un’altra storia sociale e politica, in un mondo di corte dove il rispecchiamento negli oggetti è appunto una sorta di transfer dello splendore del sovrano. Se Giovanni Pontano nel De Splendore contrappone, come ricorda Barbara Furlotti – che con Guido Rebecchini cura la mostra allestita sul tema a Palazzo Te –, l’uomo sordido e l’uomo splendido prendendo come riferimento l’uso del coltello a tavola («la differenza è questa, che il coltello del primo è sudicio e con l’impugnatura di corno, quello dell’altro è lucido e con l’impugnatura di materiale nobile o lavorato con maestria da un artista»), resta da chiarire che cosa sia sordido e cosa sia splendido. Oggi, il design, in quanto progetto moderno, non sarebbe più in grado di sostenerne la contrapposizione se non rovesciandola: all’uomo comune l’oggetto di design e funzionale, agli “splendidi” roba di cattivo gusto, ostentato, costosissimo e di dubbia durata. C’è da dire che il progetto moderno è fallito quando i designer hanno dimenticato la loro etica sociale, proponendo oggetti inaccessibili spesso anche alle tasche delle classi medie (Argan oltre mezzo secolo fa, per questo, ne profetizzò la fine, ma non aveva previsto una società, la nostra, dove l’oggetto stupefacente, telefonino et simili, anche per i meno abbienti sembra più necessario del pane); e d’altra parte esiste un design per parvenu, ceti affluenti che bramano scarpe da migliaia di euro. Quanti film americani hanno celebrato il mito delle scarpe come simbolo di divismo e ricchezza superflua presentandoci cabine armadio con centinaia di calzature le più bizzarre? Alla domanda, perché compri tutte queste scarpe se poi non le indossi nemmeno una volta, la risposta poteva essere: quando sono giù di corda mi gratifico comprando un paio di scarpe.

Giulio Romano, progetto per saliera, 1537-1546 circa

Giulio Romano, progetto per saliera, 1537-1546 circa - The Courtauld / Bridgeman Image

La funzione dell’oggetto che Giulio Romano disegnava aveva tutt’altre prospettive esistenziali: doveva celebrare lo splendore di cui intendevano ammantarsi Federico II Gonzaga e la sua consorte, Margherita Paleologa. E questo non rientra certamente nella psicoanalisi freudiana (come in parte anche il tormentone che ravviva le cronache della deboscia italiana contemporanea a proposito di una soubrette che lamenta il furto da parte del marito di centinaia di scarpe, del costo ciascuna di migliaia di euro: qui siamo sul piano del puro kitsch antropologico che fa parlare il popolo mediatico). Come ricorda Barbara Furlotti quando il cardinale Ercole Gonzaga si rivolgeva a Giulio non gli chiedeva generica magnificenza, ma uno splendore che desse forma ai suoi pensieri. Gusto, potere e rappresentazione. C’è un orgoglio di essere che oggi ha, nei ricchi e potenti, una pretesa che, a conti fatti, anzi alla prova dei fatti, diventa «moralmente repellente». E qui torniamo al rovesciamento delle parti fra splendido e sordido, poiché il manico di corno lo insudicia chi con i suoi pensieri ostenta un surplus di cui non ha alcun merito per ereditaria elezione, più o meno divina. Ma a proposito di abiti, scarpe e ogni altro elemento del corredo comprese le lenzuola – come appunto per il matrimonio di Federico e Margherita – Furlotti ripercorre l’importanza di una funzione, quella del guardaroba «che si occupava di riporre ordinatamente ogni cosa nella guardaroba ». Il gioco fra maschile e femminile evoca fin dal Cinquecento sia la funzione che lo spazio deputato, e fa capire quale importanza avesse a corte questo ambiente composto di varie stanze arredate, e accuratamente sorvegliato (il “guardare” valeva dunque come grave responsabilità in caso di manchevolezze o furti). Ma Giulio, e con lui tutti quelli che si sono cimentati nell’arte di produrre l’“immagine coordinata” di corte – una idea di mondo insomma –, funzionale ma anche rappresentativa di un dominio che s’incarna in un sovrano il cui splendore è consegnato, prima ancora che celebrato, dall’insieme della bellezza e della potenza che lo circonda, devono rappresentare il privilegio e l’onere del vivere nel fasto.

Nel saggio introduttivo al catalogo edito da Marsilio Arte, il direttore di Palazzo Te, Stefano Baia Curioni, ricorda che la qualità che unisce e risalta nei disegni e negli oggetti che ne derivarono è “vita”, «vitalità inestinguibile », vale a dire, meraviglia di un modo di essere. Che appunto non si riduce a “sordida” funzionalità. Qui bisognerebbe però dire che nemmeno i funzionalisti moderni degli anni Venti e Trenta, come Le Corbusier, furono mai fautori di un oggetto privo di decoro, anzi il minimalismo formale e privo d’ornamento era a suo modo un’estetica più pura, cioè superlativa (e infatti venne subito fagocitata in moda dall’International Style). D’altra parte, quando Giulio disegna una culla che ha l’aspetto di una navicella, fa qualcosa che si distingue da noi solamente per il committente a cui risponde: il programma formale ed estetico è sempre lo stesso, e Giulio non fa che adattare forme e funzioni a una esigenza di rappresentazione. Così nella straordinaria pinza da tavola a becco d’anatra o nella saliera sorretta da satiri del Codice Strahov: sono invenzioni ironiche dove la sensibilità di Giulio si sbizzarrisce nel suo genio. La capacità di usare il mondo animale come deposito naturale di forme e significati che hanno anche valenza funzionale, porta alla luce nei suoi progetti un pensiero simbolico che racchiude il sentimento della natura in una sorta di cattività estetica al servizio del potente di turno. È un gioco di alta caratura artistica e concettuale. In fondo, per i corsi e ricorsi storici, che quasi mai replicano i sistemi significanti (poiché fra passato e presente c’è il mare mutevole delle condizioni sociali e delle forme politiche), Giulio che disegna la culla-navicella mi fa pensare – non sembri un’eresia – allo stile streamline degli anni Trenta, quello originato dal CX, il coefficiente di resistenza aerodinamica che faceva crescere le pinne alle vetture americane, ma che divenne presto una moda estetica, tanto che le macchine per cucire e altri oggetti domestici, fra cui le carrozzine per neonato, vennero ridisegnate con forme aerodinamiche che nulla avevano a che spartire con le loro funzioni estranee al mito della velocità. Una bizzaria del tutto diversa però da quella di certe forme che animavano i vasi e le suppellettili sulle tavole dei Gonzaga, perché nasce dal mero gusto della sorpresa, come poteva essere il set di cavatappi e turaccioli realizzato parecchi anni fa dall’artista Guillaume Corneille, dove un gatto in pieno slancio per acchiappare la preda (due poveri uccellini), fungeva da manico del cavatappi. Bello da vedere (non tanto funzionale), ma rivolto soltanto a un pubblico amante delle trovate artistiche, non certo un’opera che incarna l’epoca. Giulio invece si diverte, ma sa che nulla è serio più del gioco se sei al servizio di un signore rinascimentale, un committente che del suo splendore ha fatto una ragione politica e di memoria per i posteri (magnifici, in tal senso, i disegni per alcune brocche, una con sembianze di mostro marino, così come il foglio proveniente dal Courtauld che presenta una saliera sorretta da capre, ben più vitale nell’immaginazione della saliera disegnata da Michelangelo). E per darne conferma, anche dove questi oggetti non sono giunti fino a noi, in mostra sono esposte delle riproduzioni realizzate da una società specializzata, che ci consentono di pesare lo sfarzo e la meraviglia come condizione implicita nella nascita dell’oggetto: quella che Baia Curioni chiama l’enigma e la forza delle cose. Un tentativo, aggiunge il direttore di Palazzo Te, di «attivazione creativa con il passato», perché immagina il bene artistico non come prodotto da vendere «ma umanità da condividere». L’idea che la storia sia, come scrisse Benjamin, un tempo riempito dalla presenza dell’oggi, il Jetztzeit, il tempo di ora che evoca l’antico kairos, in definitiva ci ricorda che una mostra d’arte antica dovrebbe sempre essere il momento in cui il passato vive della nostra contemporaneità.

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