giovedì 3 dicembre 2015
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Padre Ambroise-Marie Carré era così zelante nella predicazione che esercitava quest’arte persino nei teatri, nei casinò e nei cinema, dove l’accesso gli era facilitato dall’amicizia di numerosi artisti. Egli è anche l’autore di un’opera scritta che, nel corso della sua vita, diventerà sempre più importante man mano che, con gli anni, diminuirà la sua predicazione orale. Anche nelle sue opere più mondane, i quattro volumi del suo Journal, padre Carré non parla quasi mai delle vicende politiche del suo secolo. Dal 1940 ebbe un ruolo glorioso nella resistenza all’occupante nazista. Più volte ha rischiato di essere arrestato. Per lui quell’impegno era normale e parlava più volentieri delle prodezze altrui che delle proprie. In campo religioso era altrettanto discreto. Ben prima del Vaticano II scriveva in favore di alcune riforme adottate più tardi dal Concilio. A differenza di molti ecclesiastici, non attese che la Chiesa fosse indebolita per criticarne il conservatorismo e la burocrazia. In compenso, appena l’istituzione ecclesiastica gli sembrò minacciata, fece tacere tutte le sue rivendicazioni. Non c’erano tracce di opportunismo in lui. Per tutta la vita dedicò molto tempo ai malati e ai morenti, soprattutto nell’ambiente degli attori e degli artisti, di cui fu il primo cappellano ufficiale. I suoi innumerevoli amici non smettevano di sollecitare il suo consiglio, e anche molte persone che lo conoscevano a malapena e che istintivamente avevano fiducia in lui. Nel momento in cui tutti gli ambiziosi mettevano una lettera maiuscola alla parola “contestazione”, la futilità di ciò che si intende con questo termine gli è sempre sembrata ovvia. Padre Carré aveva altre cose in mente. E la più importante per lui era il dramma spirituale che ha accompagnato la sua vita. Le sue confidenze al riguardo sono poche, frammentarie, non sempre facili da interpretare. Il testo più importante, credo, in relazione a ciò che ci interessa, conta solo una ventina di pagine. Si trova all’inizio di un libro intitolato Chaque jour je commence, pubblicato nel 1975. Esso descrive un’esperienza notevole che risale, pensa l’autore, ai suoi quattordici anni. Ecco la descrizione: «[Questo ricordo] mi accompagna come una presenza al tempo stesso dolce ed emozionante. Mi accompagnerà fino all’ultima ora. Uno sguardo basta a rianimarlo, uno sguardo a quella finestra dell’edificio in cui, a Neuilly, abitava la mia famiglia. Quanti anni avevo? Quattordici, mi sembra. Una sera, nel piccolo vano che usavo come camera, sentivo, con una forza incredibile che non lascia spazio all’esitazione, di essere amato da Dio e che la vita, […] là, davanti a me, era un dono meraviglioso. Soffocato dalla felicità, sono caduto in ginocchio». Anche a mezzo secolo di distanza, padre Carré non può evocare quella sera senza risvegliare l’e-mozione dell’esperienza originale. In generale, in tutto ciò che chiamiamo “ricordo”, le tracce dell’avvenimento rammemorato sono appena sufficienti per impedirne l’oblio. Qui, al contrario, sono così profonde che la parola “ricordo” pare inadeguata alla riflessione. Il positivo nella sua vita è il sentiero di luce dietro la cometa che ha illuminato, una sera, il cielo della sua infanzia: «Ho spesso rievocato [...] il momento miracoloso in cui la vita diviene consapevole della realtà di Dio e del suo legame con Lui, quando, più tardi, sotto la guida di padre Chenu, ho studiato con incanto la teologia dei Padri greci. L’incarnazione di Cristo è per loro come una ri-creazione dell’umanità. Sì, sono stato ri-creato quella sera». Come definire ciò che è accaduto nella stanzetta di Neuilly? È un’“esperienza mistica”. Per gli increduli fermamente convinti della loro incredulità, è necessariamente un’illusione o un inganno. Senza escludere queste possibilità, i credenti ne aggiungono un’altra: l’esperienza mistica può essere reale, autentica. Essa è allora la perla di grande valore di cui parla il vangelo, così preziosa che si deve sacrificare tutto per averla. Il futuro padre Carré non esitò. Decise di farsi missionario in terra pagana, con la “palma del martirio” come unica prospettiva. I preti del suo collegio, Sainte-Croix de Neuilly, cercarono di calmare questa esaltazione. Fu allora che l’adolescente si orientò verso l’ordine domenicano. Se ogni esperienza mistica è una fonte di felicità che non si esaurisce mai, se trascen- de il tempo, padre Carré avrebbe dovuto godere tutta la vita della fede radiosa che la voce pubblica gli attribuisce. Un attento esame dei suoi scritti non conferma questa ipotesi. Il padre si lamenta spesso del silenzio di Dio e della disperazione che ne consegue. Dopo Neuilly, le «consolazioni mistiche» – è l’espressione consacrata dall’uso – gli sono quasi sempre mancate. Per definire l’ambizione che lo ha attirato oltre Neuilly, il padre parla spesso della sua «vocazione alla santità». Per lui, come per molti aspiranti alla vita mistica, la parola «santità » implica molto più di un contatto unico con Dio, piuttosto una serie di contatti, ciascuno più intenso e prolungato dei precedenti. Tutte queste esperienze mistiche andranno a scandire le tappe della vita, per approdare infine all’eternità, obiettivo finale del processo di santificazione. Questo progetto, per quanto nobile possa essere, riduceva l’esperienza di Neuilly alla funzione di primo gradino, il più basso, di una scala innalzata verso il cielo… Con il passare degli anni, il padre era nell’attesa, sempre più impaziente, di nuove esperienze mistiche che non arrivavano mai. Padre Carré ha sperimentato questa situazione a volte come un fallimento personale, a volte come un’insolvenza di Dio stesso. Gli effetti di questa siccità spirituale, aggravati nel corso del tempo, si sono aggiunti ai disastri nel mondo e al disordine nella Chiesa per minare la fiducia di padre Carré nella bontà e talvolta anche nell’esistenza di Dio: «Non posso parlare apertamente – scrive – perché la mia fede sembra così sicura, così contagiosa – da quel che si dice – che scandalizzerei il mio prossimo». Non è difficile trovare testi in cui i dubbi di padre Carré si esprimono in modo inequivocabile: «Signore […] se esisti, restituiscimi le mie certezze. E se tuttavia mi lasci nell’oscurità, concedimi la profonda convinzione che questo momento di angoscia ha la sua utilità». Bisogna vedere, credo, in padre Carré, non uno scrittore religioso simile a tanti altri, e nemmeno un pensatore mistico, ma, più radicalmente, un mistico nel senso più concreto. Il fatto di aver beneficiato, all’inizio, di un’esperienza eccezionale fece di lui, da allora in poi, un mistico spesso frustrato e scoraggiato. Santa Teresa di Lisieux è l’esempio più frequentemente invocato: «Sono sorpreso di vedere così tanti cristiani ignorare ancora che la fede di Teresa fu tormentata, attraversata da tempeste. Rimase fedele solo a forza di eroismo. Temeva di bestemmiare raccontando quella che fu la sua prova, dando eco alle voci dell’oscurità che, per mesi, imperversavano nel suo cuore […] Ma lei ha resistito, per amore di Cristo e per amore dei peccatori». Penso che il padre abbia a lungo temuto di passare per infantile, “immaturo”, come dicono così malamente gli psicologi contemporanei. Egli dimenticò che, nel nostro mondo, gli ultimi mistici sono bambini. Per comprendere questo tipo di dimenticanza, in un cristiano così informato come padre Carré, bisogna tenere conto delle pressioni esercitate su di lui in un mondo sempre più vuoto di Dio. Ecco la storia di un colloquio tra padre Carré e i giovani combattenti della più oscura e ridicola delle nostre guerre, quella che non è mai avvenuta e di cui si dissimula pudicamente il non-essere dietro una formula stereotipata, “gli eventi del maggio ’68”. «[…] avevo accettato di consegnarmi all’interrogatorio di 70 o 80 studenti e studentesse in Legge. Senza pietà, naturalmente, con un’indiscrezione che faceva parte delle regole del gioco, mi girarono e rigirarono sulla graticola. Il punto cruciale era la giustificazione della mia fedeltà. In che misura è essa imposta dal mio passato? Non sono forse oggi prigioniero di vecchie abitudini? La vocazione di un tempo (che venne dal Signore o dalla mia immaginazione) spiega ancora quotidianamente la mia vita o è solo un’eco, molto debole, a volte impercettibile, ridicola comunque, che comprendo senza volerlo ammettere?». Padre Carré aveva con molta evidenza commesso l’imprudenza di confidare il grande segreto del suo quattordicesimo anno a questi giovani che erano più conformisti che feroci, ma nello stile richiesto dall’epoca. I sessantottini si credevano capaci di “decostruire” la loro vittima da un punto di vista maoista. In realtà, furono loro a essere silenziosamente decostruiti. Il padre vedeva bene che i suoi persecutori non erano più cinesi di lui. Spesso venivano da Neuilly, come lui, o forse dal XVI arrondissement. Oggi molti di loro sono ancora collocati nei consigli di amministrazione dei nostri grandi affari capitalistici o di Stato. Si preparano a prendere una comoda pensione. Padre Carré vede più lontano di coloro che lo rigirano sulla graticola. Non è alle proprie forze che deve la lucidità, ma a quella esperienza, che i suoi interlocutori confondono con il più nero oscurantismo. È questo, in fondo, che l’ha sempre protetto non solo dalla futilità contestataria, ma da tutti i fantasmi intellettuali ai quali tanti privilegiati giovani e meno giovani intorno a lui non hanno smesso di soccombere – il nietzschianismo, l’althusserismo ecc. A che cosa padre Carré si è aggrappato per tutta la vita, “tristemente”, senza dubbio, ma “mirabilmente”? All’«unico evento che abbia mai messo tanta evidenza nella [sua] fede», all’esperienza di Neuilly. Dopo mezzo secolo di un’attesa sempre vana, padre Carré si decise finalmente a guardare le cose in faccia: dal suo quattordicesimo anno, il vertice della sua vita religiosa si era sempre collocato non nel futuro, davanti a lui, ma dietro, nell’esperienza di Neuilly. Per la prima volta, cercò davvero di far rivivere l’evento straordinario che, a volte negativamente, ma soprattutto in modo positivo, aveva dominato tutta la sua esistenza. Per questa rivalutazione positiva del passato, sempre in Chaque jour je commence, padre Carré cerca dei testimoni a lui vicini e ne trova; per esempio il romanziere Julien Green, di cui cita una frase di notevole rilevanza: «Il ricordo di una grazia passata, può essere una nuova grazia». Per Julien Green come per padre Carré, la parola “grazia” indica un favore spirituale, un’assicurazione che Dio dà del suo amore. Questa parola è un sinonimo più discreto, tutto sommato, di “esperienza mistica”. E, citando Julien Green, il padre rende grazie alla sua esperienza fondante troppo a lungo dimenticata. Ne riconosce la fecondità, a lungo sterilizzata dalla sua stessa “concitazione”. Si ritiene ormai responsabile delle sue lunghe crisi di aridità.
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