giovedì 9 dicembre 2010
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Testimone dell’epoca tragica delle grandi ideologie, dei regimi totalitari e del loro crollo, Giovanni Paolo II ha avuto una profonda coscienza della transizione dalla modernità a quella che si è ormai convenuto di chiamare la post-modernità. Egli ha colto in anticipo l’ingresso dell’umanità in una fase di forte travaglio segnata da nuove tensioni e contraddizioni.La prima di queste tensioni si colloca proprio nella attuale fase della parabola del processo di secolarizzazione. Se la cifra sintetica della modernità ha avuto la sua punta espressiva in alcuni teorici di un ateismo radicale e militante, la post-modernità pare invece contraddistinta da un’attitudine meno agguerrita, ma forse assai più provocatoria nei confronti della religione.Come afferma Charles Taylor, «siamo passati da una società in cui era "virtualmente impossibile" non credere in Dio, ad una in cui anche per il credente più devoto questa è solo una possibilità umana tra le altre». Ciò non implica una scomparsa del religioso. Anzi, proprio nell’odierna fase di secolarizzazione avanzata, assistiamo a un «ritorno del sacro», che, pur aprendo nuove prospettive, «non è privo di ambiguità», come riconosceva lo stesso Giovanni Paolo II. La tendenza attuale attesta di fatto il permanere di un disincanto universale in cui la fede cristiana, ritenuta da molti pura convinzione soggettiva e non razionalmente documentabile, sarebbe tutt’al più legittimata a sopravvivere accanto alle altre espressioni religiose, in nome di un diritto universale alla differenza. Mediante un’applicazione scorretta del principio di uguaglianza si giunge infatti a sostenere che le religioni sono «tutte diverse e tutte uguali».L’oggettività che la cultura odierna nega alla fede, e veniamo così a una seconda "pretesa" del mondo contemporaneo, finisce per essere riconosciuta alla scienza sperimentale, cui sola spetterebbe – se non una definizione – di certo una descrizione compiuta dell’uomo. Si diffonde sempre più infatti, soprattutto in forza delle strabilianti scoperte nel campo della biologia, della bio-chimica e delle neuroscienze, una vulgata di timbro scientista che tende a ricondurre tutte le espressioni e le facoltà dell’umano a pure attività cerebrali. Queste in prospettiva potrebbero, si afferma, diventare addirittura artificiali. In questo senso non sarebbe più possibile, a rigore, parlare di un soggetto personale, dotato di una dignità intrinseca, portatore di diritti e di doveri, ma l’uomo non sarebbe altro che «il suo proprio esperimento». Le problematiche, troppo sinteticamente richiamate, impongono alla fede cristiana una svolta cruciale. A ben vedere, quella che alla fine dell’epoca moderna, che discettava di morte di Dio e del soggetto, era la domanda corrente: «Esiste Dio?» assume, nella post-modernità, un’altra, forse più stringente, formulazione: «Come nominare Dio oggi, come narrare di Lui comunicandolo come Dio vivo all’uomo reale?».Nell’ottica cristiana Dio è Colui che viene nel mondo e perciò si distingue da esso senza che questo escluda la possibilità di coglierlo come familiare. Per parlare di Dio «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare. La fede cristiana vive anche dell’esperienza di Dio che si è fatto conoscere e si è reso familiare». È necessario stabilire prima la familiarità con Dio perché Dio sia conosciuto. Allora «Dio diventa  una scoperta, che insegna a vedere tutto con occhi nuovi». La riflessione di Karol Wojtyla, alla luce del magistero soprattutto trinitario di Giovanni Paolo II, offre una risposta persuasiva a questo interrogativo, mostrando in tal modo la forza profetica del suo pensiero e, quindi, la sua attualità. Per incontrare Dio l’uomo postmoderno dovrà cercarlo sulle vie lungo le quali Dio si attesta all’enigma-uomo (l’uomo è un essere che esiste ma non ha in sé il principio della propria esistenza), continuando a rendersi a noi familiare.La riflessione e l’insegnamento di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II ne indicano almeno tre. La prima via è la stessa esperienza comune dell’uomo. Anche tenendo conto di tutte le obiezioni che scaturiscono dalla complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere con Karol Wojtyla: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune dell’uomo», di ciascun uomo. Essa ne attesta anzitutto l’integralità (il reale è intelligibile e l’uomo può ospitarlo) e l’elementarità (ogni uomo conviene con tutti gli altri nel vivere affetti, lavoro e riposo), vale a dire la sua indistruttibile semplicità. Nota ancora Wojtyla: «Questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità». La seconda via passa per la struttura originaria dell’uomo nelle sue tre polarità costitutive che individuano l’unità duale dell’io. È il dato antropologico essenziale che vede l’uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo-società. Voglio in particolare ricordare la centralità, nell’indagine e nel magistero di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II, del tema dell’uomo-donna e del mistero nuziale. L’uomo, ci ha insegnato il Papa sulla base di quanto contenuto nei racconti genesiaci della creazione, non può esistere solo, ma «soltanto come unità dei due, e perciò in relazione ad un’altra persona umana» Egli è costitutivamente aperto all’altro. L’essere umano infatti non è solo individuo (identità), ma anche persona (relazione/differenza) capace di autotrascendersi. Questo elemento antropologico originario riceve un’adeguata spiegazione alla luce della Rivelazione. Da un lato, esso si pone infatti in analogia con l’incontro, in chiave nuziale, tra Dio e l’umanità, e dall’altro, come Giovanni Paolo II ha genialmente intuito, reca l’impronta della comunione trinitaria.La terza via che sostiene l’insopprimibile desiderio umano di Dio nella scoperta del suo essere a noi familiare è la domanda circa la fragilità e, soprattutto, circa il male, il dolore e la sofferenza. In molti pronunciamenti, e soprattutto nella Lettera apostolica Salvifici doloris, Giovanni Paolo II ha mostrato che l’esperienza umana della fragilità, della sofferenza e del male non può essere separata dalla domanda di salvezza e di redenzione. La risposta a questa domanda può essere almeno intravista nell’atteggiamento umano del dono totale di sé, cioè dell’offerta: «Il dolore si scioglie in un amore riconoscente», scriveva negli anni di prigionia il cardinal Wyszynsky. Se la vita ci è data, allora essa si può compiere solo nel dono. La controprova sta nel fatto che, se non la doni, la vita ti è rubata dal tempo. Si può mostrare che le tre chiavi metodologiche suggerite forniscono a Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II una base filosofica sufficientemente solida per reggere alle obiezioni che il pensiero contemporaneo ha rivolto alla metafisica e alla ontologia. Fanno di lui un pensatore al passo con i filosofi contemporanei. È così possibile mostrare, in modo fondato, come la proposta di Dio formulata da Giovanni Paolo II, soprattutto nelle tre encicliche trinitarie, risponde al desiderio di Dio, insopprimibile anche quando viene sepolto sotto le macerie dell’odierno clima nichilistico, dell’uomo postmoderno. La via maestra scelta dal papa polacco è quella della contemporaneità di Gesù Cristo.
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