sabato 5 ottobre 2013
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Valentina cammina per le strade di Sarajevo, ammira i moderni palazzi costruiti sulle macerie della città, incontra altri giovani come lei, preparati, vivaci, ma con ferite ancora aperte nel loro cuore. Valentina Barbieri è una giovanissima giornalista italiana e ha avuto un’idea: «Sono nata 20 anni fa, proprio agli albori dell’assedio di Sarajevo. E mi sono domandata: come vivono i miei coetanei che sono nati laggiù?». Così la ragazza, caparbia, ha sottoposto il progetto al regista Alessandro Scillitani, e i due, videocamera alla mano, sono partiti alla volta della Bosnia «alla ricerca di quelli che, timidamente, oso chiamare fratelli». Queste sono le parole di Valentina in apertura del film documentario <+corsivo>Quindi passava il tempo<+tondo> presentato in anteprima al Reggio Film Festival, in corso fino a lunedì e dedicato proprio alla Bosnia, di cui è direttore artistico lo stesso Scillitani. «Cosa può succedere se si nasce in un posto o nell’altro del mondo? Questo è lo spunto da cui siamo partiti» racconta il regista che spiega come nel seguire i ragazzi, in questo film documentario, si sia lasciato spazio al dialogo improvvisato, «per fare in modo che si raccontassero davvero». Così i ventenni di Sarajevo, Sebrenica e Tuszla, si aprono con Valentina, raccontano sogni, prospettive (poche), disillusioni e sofferenze. «Abbiamo incontrato una quindicina di ventenni grazie all’attrice teatrale Roberta Biagiarelli che ha messo in scena un monologo su Sebrenica e che abbiamo. incontrato là – spiega Scillitani –. Attraverso un’associazione che si occupa di orfani, abbiamo conosciuto diversi ragazzi nati durante l’assedio e rimasti senza genitori». Ma i Balcani che racconta il film documentario, sono oggi ben diversi da come li immaginiamo. «In Italia lo viviamo come un luogo disastrato dalla guerra, menomato, dove mandare aiuti, ma questo ci pone in un atteggiamento di superiorità – prosegue Scillitani –. In realtà mostriamo la straordinaria la bellezza di Sarajevo, la convivenza pacifica delle varie religioni che sono lì tutte rappresentate da sinagoghe, moschee, chiese cattoliche e protestanti». Attraverso il ritorno alla normalità, l’intento è quello di mostrare il volto di un Paese in cui giovani sono la vera risorsa. Giovani che nel film sono sinceri. «Quando si parla di noi, si parla solo della guerra» si lamenta una ragazza, mentre un altro di Sebrenica racconta i pesanti lutti della sua famiglia, ma la straordinaria voglia di rinascita: «Questo è il luogo di cui ho visto l’anima, il luogo delle mie radici, dove sono nati i miei genitori e i miei nonni, e cui mi sento di appartenere». E, nonostante la mancanza di lavoro e di prospettive, in fondo come succede in quell’Italia che loro sentono così vicina, non desiderano abbandonare il loro paese, ma vorrebbero vederlo rinascere. «Io credo in loro – aggiunge il regista–. Mi ha colpito il fatto che tutti studino, è facile che sappiano due o tre lingue. In molti ho colto più entusiasmo che rassegnazione. E, anche se sono pesantemente condizionati dalla guerra, spero che non ripetano gli errori del passato». La risposta, forse sta il quello che dice uno dei protagomisti del film, un regista ventenne di Sarajevo che ha già vinto vari premi: «Io ho scelto di essere felice».​
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