venerdì 6 marzo 2009
Al Vittoriano una grande mostra documenta il genio innovativo del pittore toscano e i suoi molteplici influssi sugli artisti del Trecento Da oltre tre lustri la sua opera e il suo stile sono al centro di una rilettura storica, con nuovi restauri.
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Da più di tre lustri, per un motivo o per l’altro, non si è mai sopita l’attenzione per l’opera di Giotto che, lungi dall’essere un terreno completamente dissodato, è invece spesso stimolo e ragione per ulteriori ricerche, talora per polemiche, più spesso per la felice ammirazione dello stile del maestro che prelude il nuovo corso rinascimentale. Non si potrà fare a meno di ricordare lo stupore degli studiosi e degli appassionati all’indomani del restauro ( dal 1992) della Cappella degli Scrovegni a Padova, che rivelò un Giotto nuovo, capace d’utilizzare tecniche e materiali inusitati. Più di recente, poi, Giuliano Pisani ( 2008) ha recuperato il significato dell’intero ciclo restituendone la paternità teologica ad Alberto da Padova, discepolo di San Tommaso. Anche Serena Romano, insigne medievista, è tornata sulla questione giottesca con La O di Giotto ( 2008) che riprende il tema degli echi del maestro nella penisola. I cantieri di Padova, Roma e Assisi, infatti, non poco influirono sulla cultura figurativa italiana del XIV secolo. Del resto, a proposito dell’opera umbra, non si potrà poi dimenticare la polemica non ancora sopita per la proposta di Bruno Zanardi di attribuire a Pietro Cavallini il ciclo pittorico delle Storie di San Francesco nella Basilica Superiore d’Assisi. Una tesi scaturita dalle evidenze del restauro, condotto dallo stesso Zanardi, discussa e pubblicata con Federico Zeri ( 1996) per poi essere definita in una bella monografia uscita nel 2002. Proprio da qui, dal cantiere di Assisi prende le mosse Alessandro Tomei, curatore della mostra appena aperta a Roma ( al Complesso del Vittoriano fino al 29 giugno) e intitolata Giotto e il Trecento. « Il più Sovrano maestro stato in dipintura » . Il sottotitolo è ripreso dalla Cronaca di Giovanni Villani ( 1340) e spiega bene, insieme ai celebri versi di Dante ( II, XI, 95), quale fosse l’opinione che i contemporanei avevano di Giotto. Infatti è questa la chiave di lettura della mostra, volta a scoprire l’influsso di Giotto sugli artisti di allora. Una suggestione così importante da essere ' causa prima' nello sviluppo di scuole regionali come, per esempio, quella riminese, quella fiorentina, che si contrapponeva alla senese di Duccio e di Simone, quella napoletana e perfino a quella romana che pure aveva figure di tutta eccellenza come Jacopo Torriti, Pietro Cavallini e Filippo Rusuti. Per questo motivo, Alessandro Tomei ( autore tra l’altro, di una strepitosa voce « Giotto » pubblicata nel VI volume della Encicopedia dell’Arte Medievale, uscito nel 1995), nell’intervento in catalogo ( Skira), come dicevo, parte proprio da Assisi quale « … metafora della questione giottesca » come recita il titolo. Ricordando la tesi di Zanardi, lo studioso sottolinea la componente romana del ciclo di affreschi con le Storie di San Francesco che, tuttavia, non autorizza l’autografia di Cavallini. Al contrario, secondo Tomei, la discontinuità dello stile ( che ha il suo apice nell’episodio della benedizione d’Isacco a Giacobbe, per il quale Angiola Maria Romanini pensò ad un Arnolfo di Cambio pittore), indica la presenza di Giotto come illustre componente di un articolato cantiere intento a produrre un’opera corale. Questa coralità è il dato che emerge dalla bellissima esposizione romana che si colloca dopo l’ultima monografica su Giotto che risale, ormai, al lontano 1937. Mostra- evento, questa romana, raccoglie oltre 150 opere, tutte di altissima qualità di cui una ventina di autografia giottesca, fra le quali il Polittico conservato agli Uffizi, ma proveniente dalla chiesa di Badia, il Polittico della Kress Foundation conservato presso il North Carolina Museum of Art e l’Angelo della Navicella degli Apostoli concesso dalle Grotte Vaticane. L’opera apparteneva al gigantesco mosaico che campeggiava sull’antico San Pietro che rappresentava il principe degli Apostoli alla guida della Navicella della Chiesa. Accanto ai capolavori di Giotto, la mostra presenta opere di Cimabue, il maestro di Giotto, di Torriti, Cavallini, Taddeo Gaddi, Maso di Banco, Andrea Orcagna, Giottino, Nardo di Cione, Giuliano, Pietro e Giovanni da Rimini, Giovanni da Milano e Roberto d’Oderisio che costituiscono le premesse e la declinazione della lezione giottesca cui si contrappongono, per esempio Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti, pure presenti in mostra. Ci sono poi altre grandi presenze che completano il panorama artistico dell’epoca. Mi riferisco a Paolo Veneziano, all’angelico Guariento, a Giusto de’ Menabuoi che bene esemplificano l’arte di area veneta. Completano il percorso dell’esposizione, i codici miniati, le oreficerie e i grandi scultori come Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio e Tino di Camaino che sono radice e riverbero della lezione di Giotto, il magnifico. A lato, «Dossale di villa Verucchio» (IV decennio del secolo XIV) di Giovanni Baronzio. Sotto, Giotto, «Polittico: Madonna col Bambino e i santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto» (XIII-XIV secolo)
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