giovedì 5 maggio 2016
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Poche altre istituzioni pubbliche sono state criticate e messe severamente sotto processo come il giornalismo. In questa attività informativa, comunicativa e a suo modo letteraria, così caratteristica della società occidentale moderna, a essere presa di mira è stata proprio la sua modernità, cioè l’accelerazione nel commercio di notizie. La stessa idea di notizia intesa come merce da produrre e da vendere sembrò aberrante a molti scrittori e filosofi. Scoprire, conoscere e rendere pubblica la verità è la prima regola del giornalismo. Ma queste verità da immettere nel mercato sono ancora pure verità, o sono verità adulterate, manipolate, confezionate o perfino inventate per risultare il più possibile vendibili? Fin dalle sue origini, già nel Settecento, questa attività culturale tipica dell’Illuminismo è vissuta nel paradosso di voler “illuminare” l’opinione pubblica ed essere uno strumento irrinunciabile di libertà di pensiero, essendo d’altra parte sempre sospettabile di falsificare poco o molto la verità per venderla meglio. Da un lato, perciò, il giornalismo sembra essere cresciuto in quanto ramo profano e politico, più sociale e socializzato, della filosofia, della scienza e della letteratura: Plinio il Giovane, il più giornalista, con le sue brillanti epistole, degli scrittori latini, ebbe come maestro suo zio Plinio il Vecchio, famoso erudito e scienziato. Il giornalismo moderno è in effetti il nipote della satira sociale, della filosofia pratica, dell’erudizione enciclopedica e della letteratura di viaggio. Dal punto di vista produttivo e commerciale è d’altra parte una fabbrica di notizie, un’industria dell’informazione, oltre che un’arma nella competizione politica delle democrazie. Sono stati giornalisti, scrittori come Defoe, Samuel Johnson, Dickens, Mark Twain. Sono stati critici del giornalismo Balzac, Leopardi, Kierkegaard, Baudelaire e nel Novecento l’incendiario antigiornalista Karl Kraus, nonché un giornalista radicale come George Orwell. Il senso della responsabilità sociale, pedagogica, che fonda e orienta l’attività giornalistica prevede sia la più instancabile e professionale ricerca delle verità di fatto, sia la critica dei modi in cui certe verità vengono scoperte e diffuse. Dato che non si può informare di tutto, si ha bisogno di criteri di selezione, di valori orientativi e di un linguaggio sia efficace che onesto. L’ampliamento del mercato culturale, lo sviluppo delle tecnologie comunicative, la crescente importanza politica della propaganda e commerciale della pubblicità, hanno fatto emergere nell’ultimo secolo problemi in apparenza sempre nuovi, che già appartenevano, tuttavia, alla storia del giornalismo. Il più recente e aggiornato libro che si può leggere sull’argomento, Senza filtro. Chi controlla l’informazione, lo ha scritto Alessandro Gazoia per minimum fax (pagine 404, euro 15,00). Le situazioni giornalistiche analizzate vanno dagli assassini di Kennedy (1963) e di Moro (1978) fino all’attacco terroristico delle Torri Gemelle e alle esecuzioni propagandistiche del Daesh: i classici problemi di fondo sono bene espressi già in queste frasi di copertina: «Se i media vigilano sul potere politico, chi vigila sul potere dei media?». E poi: «Tutti siamo coinvolti: la stessa salute della democrazia passerà dalla nostra consapevolezza di fruitori e produttori di informazione». Nell’epoca dei social network e del web, questo coinvolgimento di tutti, anche dei non addetti ai lavori, fino alla sovrapposizione e alla coincidenza di fruitori e produttori, ha mutato il tradizionale scenario e le precedenti pratiche giornalistiche. È questo il fulcro del libro di Gazoia: «Nel giornalismo dell’era industriale esisteva una precisa catena editoriale, e per ogni articolo c’erano solitamente un autore, un redattore, un grafico, un titolista, un tipografo». Oggi accade che «il giornalista di una testata digitale che scrive tremila battute, regola il colore di una foto con un programma di fotoritocco oppure taglia dieci secondi da un video con un Final Cut, quindi titola, clicca pubblica, e magari lancia pure l’articolo su Twitter e Facebook, non sente di aver occupato dieci ruoli diversi (…) ritiene tale situazione la “normalità digitale”». Una tale polivalenza di ruoli e autonomia di iniziative può essere creativamente entusiasmante, la conquista di una libertà fino a poco tempo prima inconcepibile. C’è tutto, sembra che non manchi niente alla realizzazione di un’utopia del giornalismo integrale, decentrato, accessibile a tutti. Ma in un sistema informativo “senza filtro” viene meno non soltanto il controllo censorio, manca (e non è una novità) la mediazione selettiva e riflessiva. Se poi la tecnologia «libera dalle tutele del passato» (cosa che di per sé dovrebbe anche preoccupare), a queste tutele andrebbe sostituita un’autotutela della coscienza critica, senza la quale la massa di informazione messa in circolo si autodistrugge nell’insensatezza e nell’indifferenza. Resta il problema della coscienza critica e di come procurarsela. Senza memoria del passato, sarà ben difficile liberarsi dai dogmi e dalle bugie del presente. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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