giovedì 24 dicembre 2015
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Antonia Arslan Lo spazzacamino cantava, percorrendo le strade. Così si faceva riconoscere dai clienti, e anche si divertiva. Teneva sempre per mano una bambina bruna, coi capelli neri e ricci, che lo guardava con adorazione: quando lui lavorava, lei sedeva quieta presso il camino o nelle cucine delle case, con un suo pupazzo. Lui aveva una decina d’anni, occhi cilestrini, fini capelli chiari e una carnagione pallida. Diceva a tutti che lei era la sua sorellina minore, e la proteggeva con estrema attenzione. 'Si chiama Lena - ripeteva volentieri - e non parla. Si è presa uno spavento da piccola, e poco dopo nostra madre è morta. Papà non sappiamo dov’è, così me la tiro dietro io.' La bambina faceva di sì con la testa, gravemente, e poi abbassava gli occhi. I due bambini venivano dalle valli del Ticino ogni autunno, migravano verso Sud come le rondini, e giravano in terra lombarda. Arrivavano, lui puliva i camini, lei lo attendeva silenziosa, e poi se ne andavano altrove. Le donne li conoscevano, e li aspettavano ogni anno. Gli davano qualcosa da mangiare, tenevano Lena al caldo mentre lui si arrampicava diligente su per i camini. La più affezionata era Imelda di Varese. Era una bella donna, un po’ massiccia, dalle guance rosse e dai modi spicci. Non aveva potuto avere dei figli, questo era il suo cruccio segreto. Così per lei l’arrivo di Johann e Lena era il momento culminante della festa d’autunno. La cucina brillava come un gioiello, ogni casseruola e ogni tegame era splendente, sotto il camino in attesa erano allineati scovoli e scopini pulitissimi. E quando le sembrava giunto il momento, lei infornava, infornava: biscotti e ciambelle, dolci allo zenzero e piccoli deliziosi bigné, perché - prima di sposarsi - Imelda era stata cuoca di fino in una grande famiglia milanese. Come avrebbe voluto tenerli con sé! Tutti e due, coccolarli e vestirli, mandarli a scuola e preparare squisiti pranzetti al ritorno! Spazio ce n’era in abbondanza, in casa; e il marito Gelmino era uno di quegli uomini robusti e pacifici, che dicono sempre di sì alle mogli (a parte quel paio di volte l’anno che in cui arrivava il cugino Ireneo da Praga, e allora erano sbronze colossali). Ma in quel novembre del 1924 il tempo era stato particolarmente inclemente, con neve precoce sulle cime e tanto freddo. Imelda si sentiva malinconica e inutile; e quando succedeva, intensificava la produzione di torte e biscotti. Un profumo di vaniglia e spezie circondava in quelle occasioni la sua casa come una bella nuvola grassa, e torme di ragazzini annusavano l’aria e convergevano sicuri verso la sua cucina. Imelda cuoceva e distribuiva, ottenendo in cambio visi felici e sorrisi soddisfatti, ma poi tutti tornavano a casa, dalle loro mamme. Così la sua malinconia non si attenuava: lei aspettava il suo spazzacamino. E quando i due bambini arrivarono, la sua gioia non conobbe limiti. Li abbracciò espansiva e si dedicò subito alla realizzazione di una quantità di nuovi luccicanti biscotti, in un’esplosione scintillante di forme e gusti felici, sicché ci mise un po’ di tempo ad accorgersi che dai due visetti che la fissavano trasudava una repressa, remissiva malinconia. Invano dunque gli aveva preparato la sorpresa di un buon letto soffice con la trapunta colorata di sua mamma, col conforto dello scaldino di braci rosseggianti, invano aveva preparato un bel discorso affettuoso e materno per offrire loro la fine del faticoso vagabondare, un tetto e una casa accogliente? Perché quei sospiri trattenuti, quei musi lunghi? Ma Imelda era furba abbastanza per saper aspettare. Gelmino, severamente ammonito, era tornato a casa pieno di buoni propositi, e il cibo fu superbo, compresa una croccante frittata con le patate. E quando il caldo e il sonno cominciarono ad agire, seppe farli parlare: perché scoprì in quel momento che anche Lena parlava, e non era affatto bloccata nel silenzio. Lena era un’orfana, l’unica sopravvissuta di una famiglia armena di Smirne. Durante l’incendio della città, nella confusione della gente in fuga, intrappolata tra le fiamme ed il mare, aveva perso la mano di sua madre ed era stata trascinata via dalla folla. Un marinaio italiano l’aveva raccolta da terra e portata con sé. Sulla nave non poteva tenerla, e l’aveva ceduta a uno svizzero, che l’aveva a sua volta affidata a un orfanotrofio di Lugano. Ma lei aveva tante paure nel cuore, non sopportava né mura né disciplina: e allora aveva seguito, d’istinto, lo spazzacamino bambino - di poco più grande di lei, ma già esperto della durezza del mondo - che le aveva sorriso come suo fratello Bedros, che una volta le aveva promesso di non lasciarla mai. Purtroppo adesso qualcuno si era accorto che non erano fratelli, e loro avevano paura. Può questa storia finire come un racconto di Natale, anche in questi tempi bui? Sì: Imelda li tenne con sé, tutti e due, e gli insegnò operosi mestieri. Fece di loro, con antica pazienza, due grani del sale della terra. © RIPRODUZIONE RISERVATA Salvatore Mannuzzu Ognuno ha le sue storie di Natale. Per meglio dire: le ha avute; adesso stanno in luoghi riposti della memoria. E bisognerebbe capire perché si trascinano dietro una specie di vergogna. Forse non c’è che da entrare un momento in quella vergogna: svolgere dall’ombra e dalla polvere qualcuna delle vecchie storie. La nostra è assai breve. Sono gli anni della guerra, forse il 1942. Il ragazzo ha una dozzina d’anni e studia fuori casa. Ma per Natale ritorna: dalla città - una piccola, opaca, periferica città - in paese. La distanza è poca, a considerarla oggi; però in quell’inverno lontano sembra quasi insuperabile, infinita. Si parte a mezza giornata, con il magro pranzo in gola, e si arriva che è già buio: il buio fondo dell’oscuramento, nelle stradine selciate su cui scende il fumo dolce e aspro dei camini. La sgangherata corriera ormai tutta un rattoppo, stipata oltre il possibile, ha traversato il Logudoro in una scia di nafta: i suoi ritardi appartengono alla leggenda di quegli anni. Dunque è come in un sogno che finalmente ci accolgono - per la porta lasciata aperta sulla notte come non si dovrebbe - le luci conosciute da sempre d’un bar, che è quasi una bettola; mentre da lì si affacciano visi qualsiasi però non anonimi, risuonano voci non si sa di chi, ma note anch’esse. È con stupore che finalmente sentiamo sotto i piedi il fango indurito dal freddo, vediamo le stelle bucare l’oscurità: stelle che sono soltanto di quel cielo. Qui approdano le ansie del ragazzo. Giacché era dubbio che egli trovasse posto sulla corriera; non era sicuro che poi la corriera partisse; era ancora meno certo che essa mai arrivasse. E il nevischio che al mattino aveva preso a cadere, sghembo, tra le grigie case della città, spinto dai mulinelli del maestrale, era stato pure motivo d’angoscia: diventando neve avrebbe chiuso la strada del ritorno. Ma ora è appena un ricordo e l’aria è molto ferma, così umida e gelata; spruzzata d’un tratto, su per la salita che si prende, da un odore di mandarini, da un fiato vecchio di vino. È in questo modo che cominciano le vacanze di Natale. Il ragazzo ha un fratello che ha nove anni meno di lui, proprio un bimbetto. Morrà poi ancora giovane, in maniera tragica e atroce. Ma adesso - fortunatamente, giustamente - il ragazzo non può saperlo: e gli porta un piccolo regalo, comprato con i suoi non facili risparmi. È un Natale di guerra e anche in città le vetrine sono assai povere. Il bambino avrà, oltre questo che ancora rimane nella valigia, altri piccoli regali trovati in un negozietto del paese: un Pinocchio di legno, un tamburo di latta, che altro? E che altro di quel Natale? Il fatto per cui si è iniziato a ricordare e a scrivere; il fuoco minimo di questa storia: che ancora brucia, chissà dove. La sorpresa del bambino e l’arrivo dei doni, domani, durante la notte della Vigilia, sono legati al tintinnare della campanella d’una bussola, di qua del portone di casa. Quel suono, nel silenzio dell’attesa, varrà come segnale d’un passaggio avvenuto: e il bambino, lui solo, potrà inoltrarsi nel buio. Il ragazzo fervidamente immagina questo, mentre dopo cena sale alla sua fredda camera e rientra, smosso il carico delle coperte d’orbace, nel letto dell’infanzia; dove lo aspetta il conforto d’una bottiglia d’acqua calda avvolta in una ruvida calza di lana. E chissà come, poco prima di addormentarsi adesso pensa - ha dodici anni - alla sua morte: e pregando chiede di non morire prima di Natale. È ciò che volevo raccontare, la storia è finita. Per chi l’ha raccontata, null’altro contiene un’immagine simile di gioia, di pura gioia; limpida e gravida di spavento: come il suono della campanella che nella notte annunciava il passaggio, l’avvento compiuto. Gioia insieme misteriosa: se induceva un ragazzo nemmeno adolescente a non voler altro dalla vita e ad accettare in cambio la morte. La vergogna che ci resta è che nulla ora sia paragonabile a quella gioia. Nulla non solo di quanto ci appartiene - sarebbe poco male. Nulla, nella parte del mondo che ci spetta; nulla cui possano giungere i nostri occhi. Né credo dipenda solo dal volgere degli anni e dal logorarsi dell’età. Quella gioia senza nome, inaccessibile e perduta, aveva la purezza del dolore e della povertà: trovava unica origine nella povera gioia di un altro. Il vero augurio di Natale - per me, per chiunque - è riaverla un momento. © RIPRODUZIONE RISERVATA INFANZIA «Ninna-nanna» un dipinto dell’artista americano Norman Rockwell
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