martedì 24 agosto 2010
Per 15 anni nei lager  sovietici come «spia». Per padre Walter Ciszek ora è in corso la causa di beatificazione. Era missionario in Polonia, la sua chiesa fu invasa dall'Armata Rossa. Da carcerato lavorava in miniera, celebrava messa su un tronco nel bosco.
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Quindici anni in un gulag sovietico, in totale 23 anni «detenuto» dal potere comunista di Mosca con l’accusa (falsa) di essere «una spia del Vaticano». Quasi rievocando un fatto di cronaca recente – lo scambio, avvenuto a luglio scorso – tra 10 spie russi negli Usa e alcuni agenti yankee di stanza in Russia – fu anche lui oggetto di permuta con due membri del controspionaggio dell’Urss. Ma in questa sua dolorosa vicenda, padre Walter J. Ciszek, gesuita di Shenandoah, in Pennsylvania, classe 1904, non ha mai perso la fede nel suo Signore: «Ho imparato a rivolgermi a Dio per domandargli la sua consolazione e a non porre la mia fiducia in altri se non in Lui» racconta nella rievocazione degli anni di prigionia in Russia, un libro appena edito in Francia, Avec Dieu au goulag (Editions des Béatitudes, pp. 316, euro 19,70), che si legge quasi come un nuovo Arcipelago solgetsiniano, tanto è intrecciata la descrizione della disumanità del sistema penitenziario sovietico alla riflessione spirituale, precipuamente cattolica, del detenuto Ciszek. Del quale, va ricordato, nel 1990, è iniziata la causa di beatificazione, nel 2006 approdata in Vaticano.Ma come arrivò il sacerdote gesuita nei gulag? A far sorgere la sua passione per la Russia fu l’appello nel 1929 di Pio XI per nuovi missionari per la Russia. Ciszek rispose nel ’37: fu il primo prete americano ad essere ordinato secondo il rito bizantino. E visto che la missione verso il Paese più ateo (allora) del mondo era preclusa, Ciszek si «accontentò» del villaggio di Albertyn, in Polonia. Dove il 17 ottobre 1939 la sua vita subì una virata imprevista. A seguito dell’accordo Ribentropp-Molotov, tedeschi e sovietici si spartirono la Polonia e il giovane gesuita si trovò l’Armata rossa in casa, letteralmente: nella sua parrocchia prese alloggio un gruppo di soldati sovietici. «Poco dopo l’invasione cominciarono gli arresti. Le proprietà (ecclesiali, ndr) venivano confiscate. Gli interrogatori si succedevano senza fine. La Chiesa era divenuta il bersaglio degli attacchi dei comunisti. La nostra parrocchia orientale venne chiusa, quella latina potè proseguire per qualche tempo la sua attività» rievocail gesuita.Di qui la decisione di seguire, per assistere spiritualmente gli operai polacchi che tentarono la fortuna in Russia, precisamente a Teplaya Gora, città negli Urali, dove lavoravano per una società di legnami. Ogni attività di fede era pressoché clandestina, ricorda l’ex prigioniero: «C’erano delle spie e dei membri del Partito che segnalavano ogni atto religioso. Bisognava evitare di parlare di Dio». Unica consolazione, racconta Ciszek, celebrare la messa nella foresta, con un tronco come altare, senza abiti liturgici, i piedi nel fango.Ma il 3 giugno 1940 il gesuita viene arrestato e condotto prima nella prigione di Perm, poi nel famigerato carcere moscovita della Loubianka, fosco simbolo del terrore staliniano. Il viaggio-incubo in treno da Teplaya Gora a Mosca Czisek lo ricorda bene: «Sembrava che tutti quei lunghi anni di propaganda sovietica aveva portato frutto. La maggior parte dei miei compagni di prigione considerava i preti come parassiti della società. Mi insultavano, mi evitavano, non si fidavano di me. Questo rappresentava per me un’umiliazione costante». Due anni di interrogatori e sevizie psicologiche (poi altre tre primavere dietro le sbarre) alla Loubianka da parte degli agenti della NKDV, la terribile polizia segreta sovietica, portarono il 26 giugno 1942 il povero prete americano (esausto da tanta pressione) a «confessare» i suoi «crimini»: una firma sotto un foglio che lo portò a 15 anni di condanna come «spia». Durante i 5 anni di carcere a Mosca Czisek ha la fortuna di «ripassare» la letteratura della Santa Russia, leggendo, in originale, Tolstoj, Dostoevsky, Turgenev, Gogol. Molto più dure furono le sue condizioni di vita nel gulag di Krasnoyarsk, a 800 chilometri nord di Mosca, dove il religioso Usa scontò la sua pena: lavorava anche 15 ore al giorno in un miniera di carbone.Ma una consolazione almeno allieva quell’incubo: per la prima volta dopo 5 anni il «nostro» può incontrare un prete cattolico. Ed esercitare il suo servizio di fede, nascostamente: celebra la messa con vino introdotto clandestinamente nel gulag e con il pane consacrato nascosto nelle baracche; ascolta di notte le confessioni dei prigionieri, da conforto ai morenti. Il gesuita racconta poi l’«ecumenismo della persecuzione», rievocando i pastori battisti e i pope ortodossi imprigionati nei gulag.Il 22 aprile 1955 Czisek viene rimesso in libertà dal gulag e può, dopo 15 anni, comunicare alla sua famiglia che è vivo, visto che dal 1947 i suoi confratelli celebravano delle messe in suo suffragio, ritenendolo morto. Ma la strada verso la piena libertà è ancora lunga: solo il 12 ottobre 1963, improvvisamente, il Kgb lo preleva nella città di Norilsk, dove era confinato, e lo porta a Mosca dove un aereo lo riconduce negli Stati Uniti. Padre Ciszek ha lavorato al John XXII Center della Fordham University. È deceduto l’8 dicembre 1984. Non prima di aver guardato alla sua esperienza nel gulag con queste parole: «Niente poteva separarmi da Dio perché egli è presente in tutte le cose. Nessun pericolo mi poteva minacciare, nessuna paura poteva più spaventarmi salvo quella di distogliere il mio sguardo da lui e non vederlo più».
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