venerdì 22 settembre 2017
A "Torino Spiritualità" lo storico e teologo François Boespflug, tra i maggiori esperti di arte cristiana, lancia un “J'accuse”: l'arte del XX secolo ha dimenticato la fanciullezza di Cristo
Carlo Carrà, «Funa in Egitto» (1958)

Carlo Carrà, «Funa in Egitto» (1958)

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I teologi e tutti coloro che si preoccupano del futuro del cristianesimo nel mondo odierno non perderebbero tempo se si interrogassero sulla sorte, sorprendentemente variabile, che le diverse fasi del ciclo dell’infanzia di Cristo hanno avuto nella storia dell’arte recente, da un secolo circa. Il loro destino è così diverso da quello che ebbero in altre epoche che non si può che restarne stupiti, persino turbati, dato che né il Vangelo né l’insegnamento della Chiesa sul tema sono cambiati. D’altra parte, è chiaro che l’attenzione accordata ai racconti apocrifi e alle meravigliose storie che questi hanno trasmesso (la Legenda Aurea ne è un esempio traboccante) mutò quando gli umanisti, poi il Concilio di Trento, minarono il credito che il Medioevo aveva concesso a tali racconti. Ma questo non spiega ancora tutto: la Chiesa ha continuato a celebrare, ad esempio, Sant’Anna come madre della Vergine, che non è nominata nel Nuovo Testamento.

La domanda dunque si rinnova: perché un soggetto come la Natività è stato sostanzialmente ignorato nell’arte del secolo scorso? E perché, al contrario, il ciclo della Passione di Cristo ha goduto di un favore enorme tra gli artisti delle varie avanguardie? Senza dubbio, è stato detto, perché il Cristo sofferente fu sentito come 'parlante' dagli artisti e/o dai loro committenti, credenti o meno: in esso hanno visto l’eloquente paradigma dell’ingiusta sofferenza. Questo spiega il successo senza precedenti della Crocifissione nell’arte del Novecento e l’abbandono di un soggetto come la Natività. L’immagine del Bambino senza un padre umano, posto al centro del presepio in una mangiatoia o steso nudo per terra - tra l’altro contro ogni logica probabilità -, adorato dai suoi genitori, da pastori e Magi, volto a trasmettere il senso del mistero cristiano, non sembra più riuscire a convocare l’interesse del grande pubblico, che giustamente o ingiustamente non si sente vitalmente coinvolto nella questione. E si può senza timore generalizzare la conclusione: le scene tradizionali del ciclo dell’infanzia di Cristo non sono più in grado di suscitare la creatività dei pittori se non nella misura in cui parlano alla sensibilità profonda dei nostri contemporanei. Gesù ebbe o meno una vera infanzia, o piuttosto un’infanzia da sogno di un Dio fatto uomo che aveva, per così dire, cancellato la sua umanità e era sfuggito al destino comune? (Cfr F. Boespflug, Jésus a-t-il eu une vraie enfance? L’art chrétien en procès, Paris, Cerf, 2015).

Gesù passò o no attraverso l’apprendimento obbligatorio a ogni piccolo uomo? Se sì, quando l’arte oserà mostrarci Gesù a gattoni, o che impara a leggere, a mangiare a tavola, a pregare? La Santa Famiglia ha o non ha qualcosa in comune con una famiglia 'normale'? È realmente vero che Gesù, Dio fatto uomo, conobbe tutto della condizione umana, eccetto il peccato? Questa domanda è la pietra angolare per comprendere il destino poco glorioso, o addirittura pietoso, che hanno conosciuto, nell’arte del XX secolo, scene come l’Annunciazione a Zaccaria o la Visitazione, o le tre adorazioni del Bambino sopra menzionate, la presentazione di Gesù al Tempio, la sua circoncisione e il ritrovamento di Gesù adolescente al Tempio. Tale questione spiega anche perché altre tappe del ciclo dell’infanzia di Cristo continueranno a ispirare gli artisti, come il primo sogno di Giuseppe in cui è esortato a sposare Maria, nonostante i dubbi e la gravidanza della futura sposa, il suo viaggio verso Betlemme per il censimento, il secondo sogno di Giuseppe nel quale l’angelo gli comanda di prendere con sé la Madre e il Bambino e di fuggire di notte, il massacro degli Innocenti, la Fuga in Egitto e il loro soggiorno in quel Paese, poi il terzo sogno di Giuseppe che lo informa della morte di Erode e, infine, la scena del ritorno dell’Egitto con un bambino Gesù che è visibilmente cresciuto ed è ormai in grado di camminare tra i suoi due genitori.


Queste ultime scene hanno tutte in comune la capacità di intercettare le difficoltà incontrate dalla maggior parte delle famiglie del nostro tempo e testimoniano, meglio di quelle elencate in precedenza, l’autenticità dell’incarnazione del Salvatore. Ciò è particolarmente vero per la Fuga in Egitto, una situazione che oggi vivono milioni di persone, soggette alla crisi migratoria. Non sorprende dunque che artisti come Arcabas abbiano dipinto il Sogno di Giuseppe, il Massacro degli innocenti e due volte la Fuga in Egitto; quest’ultimo episodio ha suscitato la creatività anche di Georges Rouault, Marc Chagall, Renato Guttuso e François-Xavier de Boissoudy, per citarne alcuni. Oltre alle classificazioni che possono fare gli storici della spiritualità e dell’arte, mi sembra che gli specialisti della teologia e della pastorale guadagnerebbero a intraprendere una riflessione sistematica sul destino artistico delle diverse scene dell’infanzia di Cristo e a ripensare in profondità le modalità attraverso le quali orientano la riflessione, la contemplazione e l’azione delle comunità cristiane nel tempo di Natale.

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