lunedì 14 luglio 2014
​Stop all'antipatico confronto con Maradona. di Italo Cucci
«Il Papa per neutralità non ha visto la finale»
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Povero Messi. Distrutto da un improponibile confronto con Maradona. Diego, sciagurato genio del pallone, generoso e sfacciato, provocatore e dannato, artista multiforme e trascinatore, bandiera di un’Argentina inconsolabile, perduta nel suo ricordo; Leo, classe inarrivabile, fabbrica di gol rapinosi o elaboratissimi, fulmine e ricamatore insieme, un sorriso perennemente mesto, una serenità nutrita di sofferenza: li ho conosciuti entrambi, mai li ho confrontati, soprattutto perché in verità Leo ha sempre sofferto l’accostamento a quell’insopportabile mito. La sconfitta celebrata al Maracanà lo ha liberato per sempre. Onesto con se stesso, ha accolto con fastidio quella Coppa Fifa da miglior pedatore del Mondiale (io l’avrei data a Robben) assegnatagli con un occhio al marketing, un altro agli argentini delusi, rendendolo simile al mitico trofeo presentato al popolo in uno scrigno griffato. Dolares y dolores. La Germania ha vinto con merito, baldanzosa e ridente in una valle di lacrime strappate prima ai brasiliani eppoi agli argentini; questi sognavano la vittoria da donare a una nazione in crisi economica, i presuntuosi oroverde hanno minacciato la saldezza finanziaria del loro Paese che per fortuna è maturato dal giorno del Maracanazo ’50 celebrato con decine di suicidi. I brasiliani, spogliati d’ogni retorica sambante, hanno incassato con contagiosa tristezza i gol degli ammazzasette teutonici - indimenticabili quei bimbi coi lacrimoni dell’innocenza - e con decoroso distacco la punizione olandese; in cambio hanno regalato al mondo un evento straordinario vissuto non in una nazione ma in un continente. È certo umiliante per noi aver abbandonato precipitosamente la scena senza aver potuto lanciare almeno un acuto degno di Caruso, come sognava Fitzcarraldo a Manaus: la povera Inghilterra che ha indotto Prandelli a sprecare due parole troppo grandi - “partita epica” - ha fatto peggio di noi; ma la madre del calcio ha evitato il dramma mentre in Italia il dibattito involgarito minaccia di finire come sempre in un mare di chiacchiere. E dire che non ci manca nulla, per ricominciare con ottimismo, visto il patrimonio del passato, ovvero una tradizione che dal ’58 ci vuole ogni dodici anni finalisti, o vittoriosi. Sono sicuro che con l’impegno di imitare la potente Germania finiremo per confermare la nostra attuale impotenza. Invidiamo la Nazionale Multietnica di Löw dimenticando che quei ragazzi di origini diverse, felicemente nati in Germania e fatti tedeschi, sono figli di un’accoglienza sincera, non d’emergenza, di un lavoro offerto e non rubato: sono amati, non sopportati. Ho sognato una vittoria europea in America ed è arrivata. Per la storia del calcio. Già, il calcio, l’odiamato calcio. Anche il Mondiale brasiliano è caduto nelle grinfie degli intellettuali aforismatici. Uno ha letto una battuta di J.L.Borges («Il calcio è popolare perché la stupidità è popolare») e l’ha trascinato in una delle solite disfide parolaie anticalcio. Non si vive di aforismi ma di conoscenza. Nel giugno del ’78 ho incontrato Borges a Buenos Aires, nella trattoria di calle Alvear 767. Mi sono presentato dicendomi lettore delle sue opere edite in Italia da Ricci, mi ha ascoltato curioso e alla fine: «Che bello avere qui il mondo intero per le partite di pallone. Spero che vinca la mia Argentina, i miei connazionali hanno bisogno di una consolazione. Ma non mi dispiacerebbe se vinceste anche voi: amo gli italiani e trovo divertente questa passione che condividono con gli argentini». Diventò anche lui campione. E il calcio rivelò al mondo non solo Kempes il goleador ma anche Videla il sanguinario. E fu l’inizio della sua fine.
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