giovedì 21 maggio 2015
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La Seconda guerra mondiale, con la sua ecatombe di morti e di feriti, con le sue immani ferite fisiche e psichiche, e con l’inenarrabile distruzione materiale che l’accompagnò fu responsabilità soprattutto di un uomo, Adolf Hitler. Fu Hitler a volere questa guerra, a provocarla e a portarla avanti con tutta l’energia criminale di cui era capace. Ma cosa dobbiamo pensare dei tedeschi che per la grande maggioranza lo hanno seguito nel conflitto anche se non era questa la guerra che avrebbero voluto? Perché hanno sostenuto e sopportato il loro Führer ed il suo regime delittuoso fino all’ultimo? La risposta è complessa e richiede comprensione di aspetti sia psicologici sia storici, ma richiede anche e soprattutto molta profondità e molta onestà intellettuale [...].Il fatto che la maggioranza dei tedeschi nonostante tutto non fosse intimamente pronta a mettere fine a quel regime, e il fatto che il popolo tedesco si sia fatto carico di tanto dolore e di innumerevoli vittime non si possono spiegare con un malinteso senso della patria e del dovere, né con un’obbedienza incondizionata, anche se questi motivi possono sicuramente aver influenzato il comportamento dei singoli. Già molto prima della guerra la maggioranza dei tedeschi si identificava con la comunità popolare (Volksgemeinschaft) propagandata dai nazionalsocialisti e questa adesione, totale o parziale che fosse, non era simulata: era assolutamente autentica. I successi della politica estera ed economica del regime negli anni Trenta erano risultato soprattutto di una sfrenata corsa agli armamenti e della “politica dell’azzardo” nei confronti degli altri Stati europei, ma dava a molti tedeschi, ad ogni livello della struttura sociale, la piacevole sensazione di essere finalmente sulla strada del trionfo internazionale. Questa sensazione di nobiltà e superiorità, e una fede quasi religiosa nell’onnipotenza del Führer furono sicuramente i fattori psicologici che più legarono la maggioranza della popolazione al sistema nazionalsocialista. È innegabile, peraltro, il peso che ebbe la paura della Gestapo, del suo controllo quasi totale e per giunta alimentato dalle delazioni private. Ma a mio avviso ancor più determinante della paura dello Stato fu l’ansia che ciascun “connazionale” aveva di restare isolato dalla società a causa delle proprie idee o del proprio comportamento; il timore di non appartenere più alla “comunità popolare” che era ormai diventata una comunanza di destini [...].Cos’ha rappresentato dunque la fine della guerra per i tedeschi? Con quali sensazioni e quali sentimenti hanno reagito alla sconfitta totale e al crollo completo del loro Stato? Si sono sentiti sconfitti o liberati? Analizzando centinaia di cartoline inviate dal campo, diari ed altri documenti privati risalenti agli ultimi mesi di guerra il quadro che si ricava non è affatto unitario. Le condizioni di vita e l’interpretazione dei fatti erano ancora molto differenziate, nonostante dodici anni di allineamento ideologico. Ciò che legava gli uomini era la paura: paura di un presente terribile e di un futuro incerto, a cui si aggiungeva la paura costante della vendetta del nemico. Ciò che univa gli uomini era anche la speranza che la guerra finisse presto: in un primo momento si sperava in una fine onorevole, poi si cercò una conclusione a qualsiasi prezzo. La fine delle lunghe terribili notti di bombardamento delle città; la fine dell’incertezza sul destino dei soldati al fronte o, viceversa, dei propri cari rimasti in patria. Fine della fame e della miseria, fine della diffusa disperazione e del profondo senso di impotenza. Come testimoniano molti appunti e diari dell’epoca, non pochi cittadini si sentirono prigionieri di un’atmosfera da fine del mondo. Altri si abbandonarono all’autocommiserazione ed al pianto. Le sensazione che si fosse arrivati al momento dell’addio era diffusa [...].Inizialmente, per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo Reich non fu affatto una liberazione, ma una tragica sconfitta. Non lo pensarono soltanto i membri del partito e i titolati o gli appartenenti alle élite dell’economia e dell’apparato statale o amministrativo, che spesso avevano potuto accedere alle loro posizioni importanti proprio grazie allo stretto legame con il regime. Non era solo l’opinione degli innumerevoli simpatizzanti, opportunisti e sfruttatori del sistema ormai morente. Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina. Simili furono i sentimenti di milioni di soldati tedeschi i cui sacrifici e sofferenze non erano bastati ad evitare la sconfitta. Al termine del conflitto, come testimoniano le ultime cartoline postali dal fronte, molti soldati semplici si sentivano semplicemente “traditi e venduti” dai loro superiori. Il ritorno, che costò tante vite umane e li portò in una patria distrutta in cui la popolazione civile aveva sofferto anche più delle truppe su certi tratti del fronte, non fece che acuire nei soldati il senso di una sconfitta totale e definitiva.Diversa fu la reazione degli oppositori e delle vittime del nazionalsocialismo, per i quali il tramonto della dittatura rappresentò l’agognata liberazione: i perseguitati, gli esiliati, i prigionieri politici e quelli che erano in carcere per causa della loro religione, i sopravvissuti – ebrei e non ebrei – dei campi di concentramento e sterminio, nonché i milioni di stranieri prigionieri di guerra o condannati ai lavori forzati in terra di Germania. Tutti costoro avevano sognato il giorno in cui gli Alleati sarebbero arrivati a liberarli; per loro era la materializzazione di una speranza. Alcune vittime del regime, soprattutto i prigionieri dei campi di concentramento spinti dai loro aguzzini lungo le “marce della morte”, erano talmente deboli che sopravvissero alla liberazione solo qualche giorno o qualche settimana. Le fotografie della liberazione dei campi di concentramento e di sterminio da parte delle truppe alleate sono tuttora le immagini più impressionanti e significative di quei giorni. In un primo momento, la fine della guerra e l’eliminazione del regime nazionalsocialista a opera di forze esterne furono, per la maggioranza dei tedeschi, soprattutto una sconfitta e il tracollo dello Stato e della società. Di liberazione, nella primavera del 1945, parlarono soltanto le vittime e gli oppositori del nazionalsocialismo e questi ultimi, lo sappiamo, erano solo una minoranza. Nelle parole del filosofo Karl Jaspers, tuttavia, la sconfitta della Germania hitleriana fu anche la «vittoria della civilizzazione». Fu il presupposto fondamentale, la condizione imprescindibile della pace che seguì, del benessere e della libertà. Per queste ragioni, guardando indietro, la sconfitta del 1945 fu un’autentica liberazione, fu il terreno che custodiva in sé «il germoglio della speranza in un futuro migliore», come disse in un celebre discorso del 1985 il presidente della Repubblica Federale Richard von Weizsäcker, scomparso di recente.Alcuni tedeschi sono consapevoli di questa situazione già da più di settant’anni, o almeno hanno percepito già allora la presenza di una dialettica nascosta fra sconfitta e distruzione da un lato e liberazione e ricostruzione dall’altro. In altre parole, i tedeschi del 1945 erano al tempo stesso “sconfitti e liberati”.
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