martedì 25 aprile 2017
Parla il regista di “Tutto quello che vuoi”, film sul delicato rapporto genitori-figli e sulla forza risolutiva dei ricordi: «Mi sono ispirato a mio padre. Mia moglie è la fata della mia vita».
Francesco Bruni: generazioni a confronto, memoria e pregiudizio
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Un anziano poeta dimenticato con tanti ricordi un po’ confusi dall’Alzheimer e quattro ragazzi di Trastevere, ignoranti, turbolenti e incerti sul proprio futuro. Misteriose scritte sulle pareti di uno studio, la ricerca di un tesoro sepolto molti anni prima, una donna amata da sempre, un viaggio alla ricerca della vera ricchezza. Con Tutto quello che vuoi, terzo film da regista (in uscita l’11 maggio), Francesco Bruni torna a riflettere sul rapporto tra generazioni in un divertente e a volte malinconico road movie che forza gli ormai claustrofobici confini di un cinema italiano povero di idee e punito ai botteghini per guardare con curiosità e passione verso un orizzonte più vasto e complesso. Complice un cast composto tra gli altri da Giuliano Montaldo, Andrea Carpenzano, Arturo Bruni, Emanuele Propizio, Donatella Finocchiaro, Antonio Gerardi, Raffaella Lebboroni.

Il film è dedicato a suo padre. È a lui che si ispira il poeta interpretato da Montaldo?

«Si, il mio babbo è venuto a mancare a fine gennaio, era malato di Alzheimer. L’episodio che risale al 1943, il cuore della storia, è accaduto proprio a lui. Quando arrivarono gli americani aveva quattordici anni, saltò su un carro di militari e se ne andò senza dare notizie per un mese e mezzo. In quelle settimane ha visto uomini uccisi davanti ai suoi occhi, donne prostituirsi nel letto accanto al suo, ha imparato l’inglese, ha ascoltato per la prima volta il blues. Poi lo convinsero a tornare a casa e gli regalarono quel piccolo “tesoro” di cui si parla nel film. Mi ha sempre detto che era la cosa più bella e preziosa che avesse mai avuto. Il punto di partenza però è stata la malattia, il suo aspetto tragicomico, lo smarrimento, la regressione un po’ infantile. Come coagulante della trama c’è poi il romanzo di un giovane scrittore, Cosimo Calamini, Poco più di niente, dove ho trovato un paio di espedienti narrativi che mi mancavano».

Quali? «Il tesoro finito sotto un lago e le scritte sui muri nello studio di Giorgio, ispirate anche a quelle del manicomio di Volterra, ora abbandonato, dove un paziente ha inciso le pareti con parole spesso incomprensibili e geroglifici. L’autore dei versi è invece Simone Lenzi, cantante di un gruppo musicale underground e autore del romanzo da cui Paolo Virzì ha tratto Tutti i santi giorni».

Scegliere come protagonisti un uomo anziano e dei giovani attori sconosciuti è un atto di coraggio o un azzardo?

«Dal punto di vista commerciale è quasi un suicidio, ma non c’erano ruoli per attori di successo, e io me ne infischio: la storia è questa, non c’era modo di adattarla a volti più vendibili. Montal- do assomiglia molto a mio padre con la sua eleganza british, e poi grazie a uno street casting, con annunci nelle scuole, nei bar e nelle palestre, ho trovato Andrea, adorabile seduttore».

Visto l’insuccesso di tanti film italiani, forse è il momento di tentare strade nuove.

«Me lo auguro, vorrei che il film si facesse notare, ma non faccio affidamento sugli incassi, anche perché la chiusura dei cinema cittadini che programmavano cinema di qualità ha peggiorato le cose. Bisognerebbe puntare su un’alfabetizzazione cinematografica a partire dalle scuole. Oppure ci mettiamo tutti a fare serie televisive, io ne ho già scritta una, molto ambiziosa, da coproduzione internazionale, e stiamo cercando partnership. Dovrei dedicarci tre anni della mia vita, ma sarei felice di poterlo fare».

Ha affrontato il rapporto tra padri e figli anche nei due film precedenti. Qui però c’è più il Bruni figlio che padre.

«Anagraficamente mi colloco esattamente a metà tra Andrea e Giuliano, dai quali mi separano 32 anni. È come se avessi rimosso me stesso di scena cercando di ricordarmi com’ero a 20 anni e di immaginare come vorrei essere a 85. Giuliano è esattamente la persona che mi piacerebbe diventare alla sua età».

Nei panni del ragazzo più spigoloso c’è suo figlio Arturo.

«Ero rimasto scoperto per quel ruolo e mancava poco all’inizio delle riprese. Ero sicuro che non avrebbe mai accettato, poi lo abbiamo convinto a fare un provino e ho capito che era giusto per la parte, anche se quel personaggio così aggressivo non assomiglia a lui. Ma è anche successo che nel frattempo Arturo, rapper con il nome di DarkSide, sia diventato una star con il suo gruppo, Dark Polo Gang. Ora i più giovani potrebbero venire al cinema per vedere lui».

Guardando il film hai sempre paura che accada qualcosa di orribile, ma non è così.

«È la tensione sotterranea che sperimenta chi vive quotidianamente con degli adolescenti. La sera quando finalmente tornano a casa ti rilassi perché là fuori possono prendersi una coltellata anche solo per uno sguardo. La sensazione è quella di una minaccia continua, e il rischio da evitare era di raccontare con compiacimento l’aspetto violento dell’essere giovani. Volevo invece mostrare che questi ragazzi sono in fondo ancora un po’ bambini».

Sua moglie Raffaella interpreta una sorta di angelo custode che affida l’anziano Giorgio a un ragazzo capace di esaudire il suo grande desiderio».

«Raffaella assomiglia molto alla Laura del film. È la fata della mia vita».

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