sabato 9 maggio 2015
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L'uomo (e la donna): una passione inutile? L’interrogativo che Jean Paul Sartre poneva nel suo esistenzialismo pessimista si ripropone oggi, drammatico, davanti all’incurante sciupio di vite umane quotidianamente sciorinato dai media. Nell’incalzare di drammi sempre più atroci, ciascuno di noi, i governanti nazionali e sovranazionali, i guardiani dell’economia europea e mondiale, i semplici cittadini, tutti noi, insomma, che apparteniamo al mondo occidentale, ci affanniamo cercando risposte per lo più vaghe e di scarsa efficacia. Ora il problema cui tutto è imputato è l’economia bloccata e stagnante, ora il fondamentalismo, ora la società multiculturale, ora la disoccupazione, ora lo svuotamento dei partiti e le mutazioni incontrollate della democrazia. Cerchiamo sempre altrove. Il problema, invece, è del tutto evidente. Il dramma delle migrazioni di massa e della schiavitù che viene praticata apertamente, delle persecuzioni religiose e i massacri, le uccisioni e gli stupri perpetrati in nome di Dio, della miseria e della fame: la violenza sull’uomo ha raggiunto livelli di una ferocia sempre più insopportabile. In un mondo mai così capace di produrre ricchezza, l’accanimento sull’uomo sembra acuirsi in modo tanto incontrollato quanto puramente distruttivo. Le teorizzazioni sui diritti umani, il più alto distillato della morale laica occidentale, sono ormai fragili mura di carta a difesa di princìpi che, sorprendentemente, non sono affatto universalmente condivisi, mentre il nostro mondo, progredito in ricchezza, conoscenze e libertà, è assediato da un rigurgito devastante di irrefrenabile primitivismo, dinnanzi al quale appare impotente. La marea che incalza l’Occidente suscita però la drammatica domanda se quest’ultimo non condivida, nel modo sofisticato e complesso che gli è proprio, la medesima furia distruttrice nei confronti dell’essere umano. A ben vedere, infatti, sono molti i modi in cui questa si esercita anche nel mondo ipersviluppato e postindustriale, tanto che non è possibile affrontarli tutti. Ne esiste uno, tuttavia, che sconcerta per la propria ambigua incisività, e che si propone di scardinare in profondità il concetto stesso di “umano”. Mi riferisco all’orizzonte complesso delle varie filosofie della morte dell’uomo. Si potrebbe ritenere che il loro destino – per l’evidente irricevibilità da parte dei più – sia di non lasciare traccia, rimanendo una nota a margine nella storia del pensiero. Ma in realtà dobbiamo avere molto chiaro che non è affatto così. Si parla molto, per esempio, e non sempre in modo informato, di “teorie del gender”, senza avere coscienza della loro appartenenza, in vario grado, al filone delle filosofie della morte dell’uomo. Ed è precisamente da qui che occorre partire. Parte del pensiero postmoderno, infatti, si propone di elaborare una riflessione che esca dalle griglie della filosofia del soggetto, cercando il superamento dello schema, tipicamente moderno, del razionalismo antropocentrico. In che modo? Tre punti sono fondamentali per comprendere questo orizzonte così importante e capire davvero i radicali mutamenti di costume che ci fronteggiano. Il primo è che questa filosofia è una filosofia della differenza e del divenire, che discioglie cioè l’esistente in un processo di continuo mutamento e di completa “dissomiglianza”.  Oltre a Nietzsche e parafrasandolo, la proposta è di collocarci dentro «l’eterno ritorno della disuguaglianza ». Il secondo punto immediatamente conseguente è quello di una de-naturalizzazione completa dell’esistente. Che cos’è ormai “natura” se non, appunto, il fluire nomade, continuo, impossibile da trattenere e dove ogni rappresentazione dell’uomo (e di ciò che, per lui, e in lui potrebbe essere considerato “naturale”) è rifiutata come arbitrariamente e violentemente normativa? Valga per tutte l’affer-mazione di Michel Foucault circa l’uomo, volto di sabbia che l’onda del mare si incarica ritmicamente di cancellare e le cui mobili immagini sono affidate di volta in volta all’azione dei discorsi che la storia, nel complesso reticolato di relazioni che la compongono, periodicamente coagula e impone come modello ondivago dell’“umano'”. In questo contesto, ogni richiamo a una “natura” dell’uomo è impossibile. Il terzo punto di questo percorso, è elaborato da Judith Butler, la teorica di questa linea di pensiero più rappresentativa perché più radicale. Esso consiste nell’applicare il sistema di relazioni, produttrici di discorsi “performativi”, costitutivi cioè di identità variabili, alla corporeità. Ciò è possibile poiché, per Butler, non solo l’appartenenza al genere è un prodotto che la cultura impone all’individuo umano, ma perfino la corporeità è superficie completamente neutra determinata soltanto dal fluido condizionamento culturale. La caratteristica sessuata del corpo, per Butler, perciò, non è più portatrice di alcun senso, se non di quelli che le relazioni e i discorsi che le strutturano e che ne esprimono il potere “performativo” le forniscono di volta in volta. La storia, per Butler, viene frantumata ancora più radicalmente di quanto avvenga in Foucault, divenendo storia continuamente diveniente dei corpi singoli, costruiti culturalmente nel modo che si è detto. Nello specifico, ciò vuol dire che essi sono capaci di assumere ogni connotazione sessuale che l’incessante fluire dei discorsi innervanti le relazioni imponga. Il quadro è di totale mobilità. Ne consegue che ogni valutazione morale legata all’esercizio della sessualità è da respingere come completamente destituita di fondamento, realizzando così definitivamente il proposito nietzschiano di liberare la vita dalla schiavitù di ogni morale pretestuosamente fondata in una supposta “natura”. Il confronto dialogico tra questo contesto e chi si muove nel solco dell’antropologia cristiana e delle relazioni interumane e intersessuali che tradizionalmente le appartengono, e di cui eterosessualità e stabilità della famiglia sono i cardini fondamentali, è, evidentemente, estremamente arduo. Per impostarlo in modo costruttivo, è bene partire dalla comprensione che il rapido mutamento delle percezioni comuni intorno al matrimonio, all’esercizio della sessualità, alle relazioni interpersonali non è casuale ma è, piuttosto, ascrivibile a una precisa deriva del pensiero che, come tale, è possibile vagliare, criticare, superare. La precipitosa evoluzione del costume ha, insomma, un ben determinato “album di famiglia”.  Il grande sforzo del pensiero cristiano dovrebbe essere quello di rispondere in termini convincenti alla sfida che è mossa alla sua intelligenza da un pensiero antiumano in cui il soggetto appare privato di una dimensione che gli appartiene in modo essenziale: quella della libertà. Sottoposto alla performatività delle relazioni di sapere/potere, alla dialettica del riconoscimento, alla convocazione dell’altro/ i, all’azione costitutiva dei primi rapporti fondamentali tramite il senso di colpa, l’uomo diventa una passione inutile perché dissolta nel proprio sé originale e irripetibile. Al pensiero cristiano compete – in coerenza con il proprio lascito fondamentale – riproporre l’inesauribile ricchezza di ogni individuo umano nell’uguaglianza ontologica accomunante.
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