mercoledì 26 aprile 2017
Davide Conti rilegge alcune figure di "uomini del Duce" che furono poi molto attivi nella neonata Repubblica come prefetti, questori agenti segreti e ministri
Benito Mussolini passa in rassegna un reparto di legionari della Guardia Nazionale (ottobre 1944)

Benito Mussolini passa in rassegna un reparto di legionari della Guardia Nazionale (ottobre 1944)

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Il bello studio di Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi. Pagine 271. Euro 30,00), edito grazie al sostegno dell’Associazione nazionale Perseguitati politici antifascisti, fornisce ulteriore, abbondante materiale alla storia del nostro paese nel difficile periodo tra immediato anteguerra e immediato dopoguerra e invita a molte riflessioni: storiche e politiche certo, ma anche morali. Storico, consulente dell’Archivio storico del Senato, esperto nei problemi dell’occupazione italiana nei Balcani, del movimento partigiano e del neofascismo, Conti conosce e utilizza una letteratura storica e documentaria molto ampia per ricostruire – non asetticamente, al contrario con viva partecipazione, ma anche con molta onestà scientifica – alcuni profili di personaggi forse 'minori', ma tuttavia qualificati e qualificanti, di prefetti, dirigenti di polizia e alti ufficiali dell’esercito che durante il secondo conflitto mondiale, nell’esercizio delle loro funzioni, furono responsabili di atti in seguito ai quali furono accusati da parte dei vincitori e di parecchi stati invasi – Francia, Grecia, Jugoslavia e Albania – di crimini di guerra o contro l’umanità. Non è detto che queste accuse fossero tutte e sempre giustificate, né Conti lo afferma: egli si limita a sottolineare come nessuno degli accusati (a differenza di quel che è avvenuto in altri paesi, dalla Germania alla Francia all’Ungheria alla Croazia, nei confronti sia degli occupanti nazisti sia dei loro alleati collaborazionisti) «venne mai processato in Italia o effettivamente epurato, nessuno fu mai estradato all’estero o giudicato da tribunali internazionali, tutti furono reinseriti negli apparati dello Stato postfascista con ruoli di primo piano, divenendo questori, prefetti, capi dei servizi segreti,deputati e ministri della neonata Repubblica democratica».

Il che, aggiunge l’Autore, equivale non a più o meno casuali e maldestre eccezioni bensì, piuttosto, alla regola del passaggio dal regime fascista all’ultimo scorcio della monarchia alla repubblica che in effetti si usa definire, prudentemente, “postfascista”. Delle due parti che compongono il libro, la prima esamina quattro casi di funzionari di polizia o dei 'servizi'; la seconda, tre casi di alti ufficiali. La conclusione è sintomaticamente dedicata al “processo Roatta” e alla crisi di quell’epurazione antifascista che aveva del resto avuto, com’è noto, vicende ambigue e contraddittorie fino dal suo debutto. In un paese nel quale il trasformismo è cronico e anzi è ormai diventato un “carattere originale” (come dice un personaggio del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima»), era in effetti difficile capire chi avrebbe dovuto effettivamente essere epurato e chi aveva autentici titoli per poter sostenere il ruolo dell’epuratore. Del resto “ragione di stato”, “interesse nazionale” e spesso pressioni da parte dei servizi statunitensi che vedevano in alcuni ex-fascisti dei buoni e competenti collaboratori della causa anticomunista nel clima della “guerra fredda” contribuirono alle più o meno tacite sanatorie. Né va dimenticato mai, peraltro, che per esser giudicati per esempio “criminali di guerra” occorre fra gli altri un requisito fondamentale: l’aver militato nel campo degli sconfitti. Se fosse stato possibile un redde rationemequo, i banchi degli imputati sarebbero stati gremiti anche di vincitori, talora “eccellenti”.

Ma un tribunale di Norimberga del genere lo presiederà soltanto Iddio, a tempo debito. E ciò vale soprattutto – ma non solo – a proposito di personaggi e di episodi evocati da Conti: il quale è un po’ troppo indulgente quando allude ad argomenti come il comportamento dei partigiani in Jugoslavia Nel libro di Conti, ecco sfilare dinanzi a noi volti e personaggi magari dimenticati, ma che ci riconducono ai giorni più drammatici della guerra e del dopoguerra, dal 25 luglio del ’43 alla strage di Portella della Ginestra alle repressioni delle manifestazioni operaie ordinate da Scelba. Si tratta degli ispettori di polizia Ettore Messana e Ciro Verdiani, del colonnello dei carabinieri Ugo Luca, dei generali Giovanni Messe, Taddeo Orlando, Adolfo Infante, Gastone Gambara, Giuseppe Pièche e Pirzio Biroli, dei prefetti Giovanni Ravalli e Temistocle Testa, del capo della squadra mobile di Roma Rosario Barranco, fino a un esponente della Resistenza milanese nel ’44-’45 come il più tardi ministro Achille Marazza. I casi individuati da Conti rientrano tutti in un quadro più ampio e intricato: quello dell’integrazione reciproca ancorché imperfetta e squilibrata, negli anni del regime fascista, tra organi dello Stato, istituzioni politiche e società civile. Il problema non è soltanto italiano: se in Germania, dove il governo nazionalsocialista durò appena dodici anni dei quali ben la metà in situazione di guerra, poteva essere relativamente facile enucleare con sicurezza le responsabilità, i quasi vent’anni di pieno governo fascista – dal ’25 al ’43 – determinarono un avanzato processo di simbiosi fra Stato, partito, forze armate, apparato burocratico e amministrativo, magistratura, scuola, cultura, università, finanza, banche, imprenditori, stampa.

Qualcuno si oppose apertamente e prese la strada dell’esilio; altri andarono in carcere o al confino; molti tacquero e si adeguarono, moltissimi accordarono il loro più o meno incondizionato successo al regime e alle sue scelte o per opportunismo finsero di farlo. I poliziotti e i generali messi in fila da Conti vanno a ingrossare le immense schiere di politici, militari, amministratori, imprenditori, professionisti, studiosi, intellettuali, ma anche della gente qualunque passata dall’indifferenza al consenso verso il fascismo e poi alla delusione, all’indignazione, alla paura, alla resistenza armata o al collaborazionismo, ovvero all’ambigua permanenza nell’ombra o al più o meno disinvolto “cambio di casacca”. Il fascismo non fu una “invasione degli Hyksos” nella vita civile italiana: anzi, per molti tratti fu italianissimo. Il consenso vi fu, in parte coatto ma comunque molto esteso. Qualcuno si è indignato perché a Palazzo Chigi, tra ritratti dei capi di governo dello Stato italiano, c’è tuttora anche quello del Duce. Il fatto è ch’egli fu per ventun anni primo ministro legittimato dall’autorità del Capo dello Stato: si può biasimare ma non si può negare. Che poi l’uomo della violenza squadristica, delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler sia il medesimo delle bonifiche, delle massicce opere pubbliche, della Conciliazione, del superamento della crisi socioeconomica del ’29, dell’intenso sviluppo dello Stato sociale e della spregiudicata politica culturale, appartiene alla complessità della storia. L’historically correct non esiste, non è mai esistito.

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