domenica 1 giugno 2014
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​Teatri a rischio chiusura (o addirittura chiusi). Finanziamenti pubblici cancellati. Discussioni sulla tradizione nella messa in scena. Direttori dimissionari perché protestati dalle orchestre. Ingegneri che diventano sovrintendenti. Guerre intestine. Sembra il ritratto della lirica in Italia oggi (e il recente, eclatante caso Pereira alla Scala è solo l’ultimo di una lunga serie) e invece accadeva un secolo fa. È quanto emerge dalla lettura di Giulio Gatti Casazza. Una vita per l’opera (Zecchini Editore, pagine 532, euro 33) che Alberto Triola ha dedicato al direttore generale della Scala e del Metropolitan. Una carriera lunghissima, quella di Gatti Casazza, figlio di uno dei Mille, divenuto poi senatore del Regno. Carriera iniziata a 23 anni come direttore del Teatro Comunale di Ferrara, da dove nel 1898 all’età di soli 28 anni viene chiamato a Milano a fianco del coetaneo Arturo Toscanini, e dal 1908 al 1935 a New York. Il libro è impostato sulla struttura di Memories of the Opera, l’autobiografia di Gatti Casazza, qui pubblicata per la prima volta in traduzione italiana, a cui si aggiunge l’inedito carteggio con l’amico Giuseppe Agnelli, direttore della Biblioteca ferrarese. In queste lettere il general manager del Met si concede una confidenza che rivela retroscena e dettagli coloriti, assenti nelle interviste e nelle pagine ufficiali delle Memories.Giulio Gatti Casazza (1869-1940) è figura assai più nota in America che in patria. «Passato erroneamente alla storia dell’opera come l’ultimo dei grandi impresari – scrive Triola (direttore artistico del Festival della Valle d’Itria) – rivoluzionò di fatto il mondo dei teatri d’opera, inaugurando una filosofia imprenditoriale inedita nella storia secolare della produzione operistica: quella dell’azienda culturale no profit». È dunque personalità centrale per comprendere dinamiche e difficoltà della lirica oggi. La sua formazione è quella di ingegnere navale, la lirica è la sua passione. Gatti mette a frutto entrambe, fondendo ed equilibrando la logica organizzativa della prima con il suo gusto artistico. È di fatto lui a creare la figura del sovrintendente di un teatro lirico, il cui scopo non è il profitto personale, come invece per gli impresari. E con lucidità individua già nei «tanti dilettanti e direttori di teatro inesperti i veri responsabili dell’indebolimento» del sistema dell’opera. «Nemmeno il più grande genio – scrisse – sarebbe in grado di cambiare la natura delle cose e di impedire al Teatro di essere un grande servizio pubblico; i suoi due volti, quello artistico ed economico, devono essere sapientemente armonizzati, per garantire la sopravvivenza di un organismo che è sì schematico, ma non di meno vivo». Una politica che gli consente al Met, istituzione privata, priva di sostegno pubblico, di accumulare un fondo di riserva di oltre un milione di dollari: sarà il salvagente che consentirà al teatro di superare la Grande Depressione. La sua visione è opposta a quella di Toscanini. Per il direttore la perfezione dell’esecuzione musicale è un imperativo categorico. A discapito di tutto, anche dei conti: «Nessuno può pensare di far quattrini con l’opera; l’opera è fatta per perderli». E infatti il rapporto tra i due, insieme anche nel salto a New York, non sarà mai idilliaco, piuttosto un’alleanza funzionale. Ma anche fonte di liti e storiche rotture.
Alla Scala Giulio Gatti Casazza arriva dopo una gavetta in provincia che egli stesso definì fondamentale. All’epoca il teatro di Ferrara vedeva un’orchestra composta nelle prime parti da professori del Conservatorio e per il resto da artigiani e negozianti, nessuno dei quali retribuito: solo un rimborso spese per le recite e nulla per le prove. Il coro era tutto di dilettanti. La gestione era mista pubblico-privata: a finanziare la stagione (tre opere per trenta repliche) sono i palchettisti e il Comune. Quando passa a Milano nel 1898 ad accoglierlo c’è Verdi. Che gli dà un suggerimento, trasformato da Gatti in programma: «Legga con massima at-ten-zio-ne i rapporti del bot-te-ghi-no! Questi, che le piaccia o no, sono i soli dati che misurano il successo o il fallimento di un’opera. Il teatro è fatto per essere pieno, non vuoto. Se ne ricordi sempre».Il giovane direttore generale deve riaprire la Scala chiusa da oltre un anno. Era mancata, su iniziativa del partito Socialista di Filippo Turati, la "dote" che il Comune elargiva ogni anno al teatro. «All’operaio – motivò Turati – prima di far sentire suonare e cantare bisogna pensare a dargli da mangiare... Se i ricchi amano il teatro, se lo paghino». Turati non poteva aver letto lo studio realizzato in occasione dell’Expo (i corsi e ricorsi…) del 1906 in cui si calcolava che la Scala dava lavoro a un migliaio di persone, senza contare la ricaduta su «sarti, parrucchieri, calzolai, albergatori, caffettieri». Impressiona l’assonanza con dichiarazioni recenti, ma anche con la diatriba sui costi dell’opera e il ruolo dei privati. Il teatro era entrato in affanno quando venne abolito il gioco d’azzardo, motivo dell’esistenza dei foyer. Furono i privati a salvare la Scala, con l’intervento del duca Guido Visconti di Modrone, che puntò sui giovani Guido e Arturo. Ma l’altalenarsi del contributo pubblico sarà una costante dei quegli anni. Alla Scala Gatti Casazza e Toscanini aprono tutte le stagioni con Wagner (tranne una, ma solo perché all’ultimo salta la recita del Tristan, in prima milanese), senza grandi proteste. Più dubbi solleva nel pubblico la decisione dei due di allestire il Trovatore ripulendo musica e messa in scena dagli orpelli della tradizione che prevedeva «un gran agitarsi di piume bianche e di tintinnanti sciabole». Nei suoi dieci anni di gestione Gatti Casazza ospita la premiere, disastrosa, di Madama Butterfly, e le prime italiane dell’Onegin e di Pelleas et Melisande.
Quando nel 1908 verrà chiamato come general manager a New York, ancora in coppia con Toscanini, Gatti Casazza modellerà la gestione del Met sul sistema no profit (nessun dividendo, gli utili reinvestiti nell’attività artistica) inaugurato alla Scala. Oltreoceano le esigenze sono diverse. Il teatro è per buona parte di repertorio, e le recite si succedono a ritmo frenetico. La compagnia è enorme, ricca di star (a partire da Caruso) e copre titoli in almeno tre lingue diverse. Non mancano le prime assolute, come La fanciulla del West di Puccini (1910) ma anche di opere "americane", rispondendo alle ambizioni culturali di una potenza ancora solo economica. In America definiscono i suoi 27 anni al Met il "regno di Gatti Casazza". Ma la sua parola d’ordine fu «democratizzare l’opera». Il 25 dicembre 1931 mandò in scena Hänsel e Gretel di Humperdinck e le note furono ascoltate in tutto il Paese: per la prima volta nella storia americana un’opera veniva trasmessa via radio.
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