domenica 24 aprile 2016
Gatti, «Tristano, opera del perdono»
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Fa un certo effetto, parlando con un direttore d’orchestra, sentirgli dire che «ognuno di noi ha bene in mente qual è la sua missione su questa terra». Perché la parola «missione» la pensi adatta a chi ha scelto di andare a Idomeni o a Lesbo a dare una mano ai migranti che bussano alle porte dell’Europa. Forse meno a un uomo di spettacolo. Poi senti Daniele Gatti parlare di Wagner e del suo Tristano e Isotta e capisci che forse, anche dal podio, si può portare un messaggio al nostro mondo. Perché per il direttore d’orchestra milanese quella di Wagner «è sì l’opera della passione, un inno all’amore. Ma Tristano è soprattutto l’opera del perdono». Gatti può dirlo. Può scardinare quelli che sono i luoghi comuni che accompagnano la storia. Da quasi un anno non passa giorno senza che il direttore d’orchestra milanese non prenda in mano la partitura. Per studiarla e quasi per farla diventare parte di sé. Perché il 12 maggio a Parigi al Théâtre des Champs-Élysées «affronterò per la prima volta questo viaggio al quale penso da anni» racconta Gatti, direttore italiano che sale regolarmente sul podio dei Wiener e dei Berliner ed è di casa al Teatro alla Scala e al Covent Garden di Londra. Debutto con il capolavoro wagneriano che segna anche l’addio del musicista milanese, classe 1961, all’Orchestre national de France. «In buca ci saranno i musicisti che guido dal 2008 e che lascerò presto per andare ad Amsterdam », racconta Gatti che da settembre inizierà il suo mandato come Chief conductor della Royal Concertgebouw orchestra. Tristano è Torsten Kerl, Isotta Rachel Nicholls, Re Marke Steven Humes. Regia di Pierre Audi. «Stesso spettacolo – annuncia il musicista – con il quale a novembre inaugurerò la stagione del Teatro dell’Opera di Roma». Maestro, perché si è deciso solo ora a mettere sul leggio il Tristano?  «L’ho avvicinato varie volte, spesso in concerto propongo il Preludio e la Morte di Isotta. Ma da qualche tempo ho sentito che era arrivato il momento di affrontarlo per intero, di avventurarmi in questo viaggio. Non nascondo che a volte studiare musica può risultare pesante. E capita che qualche volta si vorrebbe anche fare altro. Con Tristanonon ho mai detto “Lo faccio domani”. Studiare Wagner, e in particolare questa partitura, è un piacere per l’anima, ma è anche un piacere fisico. L’ho sperimentato in questi mesi. A luglio ero in vacanza in una baita sulle montagne dell’Austria: ogni giorno prima una passeggiata, poi per almeno tre ore aprivo la partitura e la leggevo. Un lungo lavoro di preparazione che avviene nella mente». E cosa ha scoperto?«Che Tristano rimane un enigma, perché per quanto impegno ci si metta non lo si riesce a comprendere del tutto. Tristano non è solo l’opera della passione come spesso si pensa. Non è solo un inno all’amore come la storia potrebbe far pensare. È qualcosa di più. Ci sono le regole medievali della cavalleria che ho approfondito su libri di storia. E mi sono chiesto perché Tristano a un certo punto rinunci ad Isotta: lo fa per il rispetto delle regole, perché il suo animo è nobile. E questa nobiltà la si sente chiaramente nella musica e nelle linee che Wagner sceglie per il cavaliere. Il preludio costituisce l’antefatto della storia. Nella musica Wagner racconta quello che è successo in Irlanda tra i due, racconta l’amore. Poi, appena si alza il sipario e inizia il primo atto siamo già in piena tragedia perché per loro la vita è finita». Diceva, però, che Tristanoè soprattutto l’opera del perdono. «Quello che alla fine il re vorrebbe dare ai due amanti. Non riesce, però, perché muoiono. Questo mi fa dire che ognuno deve distillare perdono nella propria vita: dobbiamo riuscire a superare le offese e ad amare anche chi ci ha fatto del male. Penso che stiamo vivendo un tempo da dedicare al perdono, che non deve essere un cerotto sulle ferite che si vogliono tamponare per dimenticare il dolore. Il perdono deve essere un’esperienza che cambia la vita. Tristanoci racconta questo». Oggi, però, sembrano odio e rancore a guidare i rapporti tra gli uomini, dalla chiusura delle frontiere agli attentati terroristici. «Ero a Parigi il 13 novembre. E avevo concerti nei giorni successivi agli attentati. Abbiamo tenuto i teatri aperti per dire no a chi vuole seminare odio. La paura, certo, c’era, ma c’era anche la convinzione che occorreva dare segnali forti». Da settembre lascerà Parigi per il nuovo incarico ad Amsterdam. «Penso che oggi l’orchestra del Royal Concertgebouw sia lo strumento ideale che mi consente di esprimermi. Da quando ho iniziato la mia strada come direttore ho sempre avuto un’orchestra da dirigere non solo dal podio, ma anche dal punto di vista organizzativo. Dalla Stradivari, la mia prima orchestra, al Concertgebouw è un percorso che continua. Ogni esperienza è servita alla mia crescita di uomo e di artista, è arrivata al momento giusto, consentendomi di non bruciare le tappe». Che repertorio affronterà? «Quello della tradizione che i musicisti olandesi hanno sempre frequentato ed esaltato: Brahms, Mahler, Bruckner, Strauss. Lo affronterò dando la mia impronta e la mia visione. Questo non è un vezzo, ma un dovere per me che sono chiamato a leggere musiche di ieri facendole parlare al nostro tempo». Sono molti gli italiani oggi su podi prestigiosi. «Ma non penso sia questione di italianità, nella musica non si possano fare questioni di nazionalità. Non ha senso. Un musicista è un musicista. Detto questo fa piacere che l’Italia sia una terra di grandi direttori d’orchestra, non solo per l’opera, ma anche per il repertorio sinfonico. Questo dobbiamo dirlo con orgoglio». Di recente Daniele Abbado le ha consegnato una delle bacchette del padre Claudio, una sorta di passaggio di testimone? «Per me è stata un’emozione perché solo negli ultimi anni ho saputo che Claudio, direttore che ho sempre stimato, mi osservava da lontano e si interessava del mio percorso».
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