giovedì 23 giugno 2016
Gang city, le forme della violenza
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Un fronte urbano conquistato manu militari da bande di giovani, governato con logiche tribali, frutto estremo di una globalizzazione che replica dinamiche identiche a San Salvador, Los Angeles, Madrid e Milano. È il panorama esplorato da Gang City, programma di ricerca «che intende documentare il fenomeno di cluster urbani sottratti a ogni forma di controllo della legalità» per arrivare ad «attivare processi di riappropriazione e di cura degli spazi abitativi». I risultati della ricerca sono raccontati nell’ambito della Biennale Architettura di Venezia attraverso una mostra fotografica con lavori di autori come Letizia Battaglia, Francesco Cito, Walter Leonardi, e una mostra di design sui simboli e il linguaggio delle gang, tra abbigliamento, tatuaggi e accessori. Oggi e domani, invece, un simposio chiama a raccolta esperti internazionali. «È il primo tentativo in Italia di riunire esperti di settori diversi – spiega Fabio Armao, docente di Politica e Processi della globalizzazione all’Università di Torino e coordinatore di Gang City – urbanisti, studiosi di criminologia, sociologi che affrontano la militarizzazione crescente dei ghetti urbani. Donna De Cesare, fotografa che insegna a Austin, ad esempio, ha sviluppato il lato antropologico delle gang, studiando i bambini degli affiliati. L’ambizione è creare un network che si confronti su questi fenomeni e prefiguri soluzioni su come riconquistare gli spazi urbani». Mentre tra loro le gang creano reti a livello internazionale, uno dei problemi sottolineati da Armao è la circolazione dei dati: «C’è una carenza di informazioni persino in paesi come gli Usa in cui le gang sono “storiche”. Lo stesso dipartimento di Stato non ha una banca dati integrata a livello nazionale delle organizzazioni criminali ». Problemi che ritornano anche nel nostro continente: «Esiste un progetto europeo, Eurogang. Le sue pubblicazioni sono di 5 anni fa: troppi per dinamiche di questo tipo. Il gruppo di studio non è riuscito nemmeno a produrre una definizione condivisa di gang… La questura di Milano ha fatto un ottimo lavoro quando si è confrontata con il problema, ma è drammatico che sia dovuta partire da zero. Madrid e Barcellona hanno esperienze consolidate, ma non scambiano informazioni. Questo complica la vita anche a noi studiosi. Sono dati sensibili, si dice. A noi non servono nomi e cognomi, ma numeri». Eppure studiare le gang giovanili ha una portata ampio: «È un fenomeno che consente di studiare la criminalità allo stato nascente. Possiamo capire come si organizzano sul territorio, quando introducono i riti di iniziazione. Nessuno ha osservato i processi di strutturazione delle mafie. Studiare le gang getta una luce su tutto il fenomeno malavitoso». Le mostre evidenziano come questi gruppi abbiano una propria subcultura. «Tutte le gang fanno riferimento a simbologie religiose, espresse nei tatuaggi, per rafforzare l’identità. Questi gruppi sono abili nel vendere senso di appartenenza. Non si limitano a reclutare con la violenza o offrendo lavoro.  Ci sono analogie con il fondamentalismo islamico. Sono tutti brand di un mercato privato della violenza che copre tutte le esigenze possibili. Il tipo di messaggio e di linguaggio è simile. Quello che cambia è il rapporto con il territorio. Le gang vivono il quartiere, lo occupano militarmente. I fondamentalisti vi si nascondono o espatriano ». Questo mercato è privo di controllo. «È questa la vera pericolosità e la grande differenza con le mafie tradizionali: non esiste una cupola da decapitare. Sono gruppi che ragionano in termini di franchising». Un altro aspetto è la capacità di generare network a carattere transnazionale. «Le maras, ad esempio, nascono negli Usa da migranti fuggiti da El Salvador in preda alla guerra civile, finita nel 1992. Rispediti dagli Stati Uniti nel loro paese, hanno ricolonizzato il centro America, facendosi concorrenza. Gli affiliati alla Mara Salvatrucha e al Barrio 18 seguono le rotte migratorie verso le città dove c’è una forte comunità etnica e un’economia fiorente. Il caso di Milano è interessante perché il primo ad arrivare è stato il Barrio 18, quindi la Mara Salvatrucha vi ha mandato i suoi esponenti per continuare la guerra anche lì». Le comunità di migranti però non sono automaticamente incubatori di gang: «L’appartenenza etnica viene usata per mimetizzarsi nella città. La propria comunità di appartenenza è in realtà la prima vittima di questi gruppi, che la sottopongono a estorsioni e violenze. Non è una novità. Quando i mafiosi siciliani sbarcavano a New York andavano a Little Italy». La scelta del territorio deve avere caratteristiche precise: «Se un quartiere è post industriale, gli spazi fisici sono rilevanti. Un elemento importante è la presenza di snodi del trasporto pubblico ma la capacità di espandersi e di vendere identità è tanto maggiore quanto più queste aree non offrono servizi sociali». Il quartiere viene occupato anche visivamente: «Le gang marchiano l’area con murales per segnare i confini. Ma anche questi non sono meccanismi nuovi. Il film Gangs of NewYorkmostra come questi gruppi siano diventati poi amministratori. Qui però le città non sono allo stato nascente, sono città democratiche, ricche. Il fatto che i gruppi reclutino soprattutto adolescenti di seconda generazione denota una incapacità drammatica delle città di creare davvero integrazione e denuncia quanto poco le democrazie abbiano investito nell’educazione. Le gang hanno buon gioco nell’insediarsi in questi spazi vuoti». Il risultato immediato è il decadere fisico del quartiere. «Le fotografie, che coprono tempi e aree anche remoti, da Scampia agli slum di Los Angeles, mostrano come l’elemento comune sia un ambiente urbano degradato». Identità e appartenenza sono definite e veicolate attraverso un “design” che va dalla musica al look: «La musica è uno dei canali più usati. YouTube ne è piena, dal rap ai narco corridos, a gruppi che si ispirano alle maras salvadoregne. Alcuni canali hanno milioni di follower. C’è un uso cosciente dei social media». Non sono pochi i movimenti musicali nati nelle prigioni e dalle gang nere e ispaniche e poi diventati di massa, a partire dal rap. «Il caso più recente sono i narco corridos messicani, ispirati ai boss del narcotraffico, che hanno un vero boom negli Stati Uniti. Queste band si vestono come i narcos e ne cantano le gesta, vendendo milioni di copie. Rientrano in questo fenomeno anche alcune forme del neomelodico, e c’è un’ondata di rap napoletano che canta le imprese della camorra». Questi ragazzi non sono solo consumatori di beni ma si dimostrano in grado di creare mode. «Si vestono con un preciso codice di abbigliamento, adottano accessori, si tatuano. Dalla ricerca è emerso che i grandi marchi di moda sfruttano le mode criminali. Una nota marca sportiva ha prodotto una linea di felpe in stile gangster, con fori dei proiettili, pubblicizzate da modelli che sembrano tirati fuori dalle gang».
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