mercoledì 30 gennaio 2013
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​C’è un’Italia "normale" che vive prigioniera della tivù, alla quale s’è consegnata, e che non ama la lettura né i libri, se non come complemento d’arredo o come oggetto di consumo (i cosiddetti "libroidi" da botto in classifica), pur avendo libero accesso ai libri, alle librerie e alle biblioteche. E c’è un’Italia che quella libertà d’accesso non l’ha, e dietro le sbarre ci sta davvero, e non solo è assetata di speranza, futuro, dignità, ma è anche affamata di libri e lettura. E chiede un’alternativa alla tivù in cella. È l’Italia delle carceri, vergogna d’Europa. È l’Italia delle biblioteche carcerarie: fatta di educatori, volontari, cappellani, detenuti appassionati, ma anche di bibliotecari professionisti. Che cerca, tra mille difficoltà, di dare attuazione all’articolo 12 della legge 354 del 26 luglio 1975 di riforma dell’ordinamento penitenziario, dove si stabilisce che ogni prigione debba avere una biblioteca. Lettera morta, o quasi, fino a una ventina d’anni fa. Oggi un po’ meno. Domani? Perché i libri abbiano sempre più cittadinanza anche dietro le sbarre, quell’Italia domani si dà appuntamento alla Statale di Milano per il quarto convegno nazionale delle biblioteche carcerarie. «Daremo voce ad esperienze locali significative e spazio al confronto fra le istituzioni – dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) alla magistratura all’Associazione italiana biblioteche, l’Aib. E presenteremo la bozza di un protocollo d’intesa che definisca finalmente le relazioni tra carcere e territorio, fra biblioteca carceraria e biblioteche esterne – anticipa Giorgio Montecchi, ordinario di Bibliografia e Biblioteconomia alla Statale e presidente dell’Associazione biblioteche carcerarie –. Un’intesa fra Dap, Associazione dei Comuni, Unione delle Province, Conferenza delle Regioni e Abi che potrebbe essere firmata già a settimane. Sarà lo strumento per estendere davvero anche ai carcerati il diritto di ogni persona al libro e alla lettura, contribuendo ad attuare il dettato costituzionale sul valore rieducativo della pena. Non basta una stanza con dentro qualche libro per dire: ecco una biblioteca».«E non basta la buona volontà dell’educatore, del volontario o del carcerato colto per avere un buon bibliotecario – incalza Emanuela Costanzo, segretaria dell’Associazione biblioteche carcerarie –. Serve un professionista competente nella catalogazione, nell’analisi dell’utenza, nella gestione di acquisti e scarti, nell’organizzazione dei servizi e degli eventi culturali e di tutto quel che fa, di una raccolta di libri, una vera biblioteca. Ecco allora il titolo del convegno: Il bibliotecario carcerario: una nuova professione? Speriamo di poter togliere il punto di domanda. La legge non prevede tale figura, affidando all’educatore la gestione della biblioteca». Quando la cattedra di Biblioteconomia della Statale iniziò a occuparsi del tema, mandò alle 250 carceri italiane un questionario. «Era il 1996. Risposero in 79. E solo una decina aveva la biblioteca: Torino, Roma, Padova, Ravenna, Treviso, Milano e alcuni istituti in Sardegna – racconta Costanzo –. Nell’ultimo decennio sono sorte nuove realtà, in genere gestite da volontari, che spesso sono bibliotecari. Così è a Como, ad esempio». Altre esperienze emblematiche? «Reggio Emilia, dove la bibliotecaria dell’Azienda ospedaliera è stata distaccata presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario. A Monza, grazie alla collaborazione col sistema bibliotecario locale, è stato possibile distaccare una bibliotecaria: la novità di quel carcere è che i detenuti possono recarsi in biblioteca, mentre in genere sono i carcerati col ruolo di "scrivano" a portare nelle celle i libri richiesti dai compagni. Volterra dal 2009 è coinvolta in un progetto dell’Università di Pisa per raggiungere tutti gli studenti dell’ateneo: anche chi sta in carcere. Nelle Marche un’intesa fra Regione e sistemi bibliotecari ha aperto a tutti gli istituti di pena l’accesso al patrimonio librario pubblico». Il legame fra carcere e territorio è decisivo. Sempre. Come dimostrano le prime esperienze italiane. «Quella di Torino – prosegue Costanzo – dove il Comune fin dal 1988 ha aperto una biblioteca all’interno delle Vallette. A Roma dal ’99 una convenzione fra Comune e Dap ha permesso di avviare un sistema bibliotecario integrato tra le biblioteche comunali e tutte le carceri della città». Ci sono territori che "mandano" bibliotecari dietro le sbarre. «E carceri che li formano "in casa", come Opera, alle porte di Milano, dove dal ’99 al 2004 si sono organizzati corsi di biblioteconomia per i detenuti. Questi, con alcuni bibliotecari esterni, hanno avviato una biblioteca interna sul modello di quelle del territorio, inserendosi nella rete del prestito interbibliotecario. Quel cammino di formazione, intanto, ha aperto ai detenuti chances di lavoro all’esterno del carcere». Ma cosa leggono i detenuti? «Chi sta fuori fatica a immaginarlo, ma in carcere è vivissima l’attenzione verso le "cose ultime". E fra i libri più richiesti vi sono quelli di filosofia e di religione – risponde Costanzo attingendo alla propria esperienza –. Molti carcerati sono genitori e chiedono testi sull’infanzia e l’adolescenza. Richiestissimi i libri e le riviste di diritto, anche per collaborare con l’avvocato che prepara la difesa; i codici, ovviamente, devono essere aggiornati. Per i detenuti stranieri, libri in lingua madre. E spazio alla narrativa. Con le nuove uscite prendi l’occasione per portare in carcere gli autori, com’è stato con Moni Ovadia a Opera o Fleur Jaeggy a Como. Così rispondi anche al desiderio dei detenuti, sempre fortissimo, di dialogare con chi vive fuori».
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