venerdì 28 marzo 2014
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Se ci fermiamo a considerare lo stile, non c’è dubbio che il genio della famiglia fosse lei, Frida Kahlo, mentre Diego Rivera, più vecchio di ventuno anni, aveva una maggior capacità di dare alle forme una apparenza "moderna", che teneva conto, ovviamente, del realismo politico, ma anche di Picasso e delle avanguardie in genere, linguaggio trasfuso poi nei murales come grande epopea messicana della rivoluzione: ma l’emblema è a New York, nel Rockefeller Center (ecco un rivoluzionario alla corte del grande mecenate capitalista). Diego era un orecchiante moderno, aveva un temperamento caliente e romantico al tempo stesso, e cantava come un baritono la sua opera dedicata al popolo; Frida era non meno caliente ma più visionaria e radicata nella sua terra femminile, nella sua carne-terra, nel corpo-ctonio. Lei era più "autentica", e le stigmate del suo corpo martoriato le erano testimoni.Ci sono biografie che catturano completamente il protagonista e rendono quasi indistinguibili vita e arte (Van Gogh, per esempio). Frida Kahlo a suo modo è questa prevalenza dell’autobiografia; umanamente mantiene i suoi caratteri femminili, anche quando si mascolinizza nel vestire, tagliandosi i capelli cortissimi, e non avendo paura di esibire quell’ombra di peluria sopra il labbro superiore. Se si pensa alla Donna barbuta di Ribera, che culla un fantoccino di neonato e ci guarda fissa negli occhi, si capisce che si tratta di una tipica "mostruosità" secentesca; ma questa non potrà mai essere confusa con quell’immagine infinitamente più moderna del gamin che Frida coltivava in un gioco mutevole delle parti. Appena lo voleva, era capace di tornare femminile nel vestirsi, nel cantare, nell’atteggiarsi con quelle vanità che fanno della donna un essere seducente. D’altra parte, una latenza omosessuale emergerà in Frida quando nel legame con Rivera le cose cominciano ad andare male, causa anche i tradimenti continui del pittore. E negli anni Trenta c’era stato anche un aborto, cui la stessa Frida nel 1932 dedicò la sua unica litografia, dove appare con un bambino in pancia, dal singolare e rachitico aspetto, mentre alla madre scendono due gioccioloni dagli occhi. È una tavola composta da più immagini, che "narra" il dolore e mostra l’oggetto del sacrificio, il feto, che lega la madre per sempre avvolgendo il cordone ombelicare attorno alla sua gamba destra. Come già in altre occasioni, la vita le si accaniva contro, in quel caso procurandole un aborto che l’aveva messa a rischio della vita. Anni dopo, dipingendo il proprio Autoritratto con la Bambola, il contrasto fortissimo fra la pelle scura della donna e il biancore della bambola sottolinea, in una scena spoglia dove il letto su cui sono entrambe sedute è poco più che una branda, il disagio di una maternità mancata che trova ora il suo simbolo in quella bambola bianca come l’anima di una vita mai nata.Da ragazzina sognava di diventare medico, i dolori che gli procurava la schiena bifida dovevano giocare la loro parte in quella ricerca di vocazione, e forse presentiva ciò che le sarebbe accaduto quando, diciottenne, fu coinvolta da un grave incidente fra un autobus e un tram che la ridusse a un corpo spezzato (alcune vertebre, femore, costole, undici rotture nella gamba sinistra, osso pelvico fratturato in tre punti). Le condizioni disperate misero alla prova la sua voglia di vivere e di fare, e la sua vita troppo breve diventerà un tour-de-force per carpire al mondo ciò che questo voleva negargli. Le Scuderie del Quirinale hanno deciso, dopo il ciclo delle grandi mostre dedicate alla pittura rinascimentale, di giocare una carta più "emotiva", scegliendo questa strana icona moderna, che, quanto a fascino, se la gioca con un altro mito femminile dell’arte: Tina Modotti. Perché icona è la parola giusta per Frida, ma anche per definire la scelta e le ragioni della mostra curata da Helga Prignitz-Poda (catalogo Electa), che tende a comporsi in un solo, labirintico e ossessivo autoritratto. Sono pochissime le opere esposte dove quel dolore visionario, immaginativo, che cerca la simbiosi tra copro interno dell’artista e corpo del mondo, viene a galla esplicitamente; prevale, invece, l’immagine autoreferenziale, quasi una prova di narcisismo, e questo, alla fine, non è un male, perché vuole uscire da una certa idea della Kahlo; a ben pensarci, però, ne instaura così una diversa sacralità, il culto del "manichino", dell’icona di chi fu anche una paladina del proprio popolo e una pasionaria, qui riletta in chiave di Athena messicana.Le pareti dell’allestimento alle Scuderie, dipinte con colori chiari ma intensi, si addossano ai muri e lasciano al centro delle stanze un vuoto continuo. L’effetto è rarefatto e sfuggente; un apparire sulla tela delle anime che tornano dal regno dei morti, al centro lei, palladio e regina del Messico. Nel 43, Frida si ritrae con una veste rituale, come una sposa mistica (sulla fronte c’è l’immagine di Diego, perché Diego è nei suoi pensieri). Cinque anni dopo, in un altro Autoritratto, l’abito è diventato un indumento ancor più performante, decide lui stesso il senso dell’immagine, la sua forza espressiva, dentro un realismo che appare ogni volta come una lingua mitica e popolare, laddove l’icona della pittrice si avvicina a quella di una Madonna da portare in processione.L’immaginario di Frida Kahlo è popolare, ma non naïve. Sarebbe un errore prendere quel suo surrealismo a tratti caricaturale, barocco nel midollo, per una espressione d’incultura. Frida è coltissima, ha conosciuto gli artisti europei, New York, ha partecipato alla battaglia culturale degli artisti rivoluzionari, diceva di essere nata nel 1910 (in realtà era del 1907) per far coincidere la sua nascita con la rivoluzione messicana; ma i retablos e l’arte popolare messicana entrano nel suo immaginario come memoria-radice, perché le radici sono i vasi e i cordoni che legano il suo corpo alla sofferenza. Questa vena onirica, nonostante gli accostamenti in mostra con De Chirico, Severini, Dix, Penrose, non è quella del surrealismo europeo. Appartiene forse di più a un orizzonte "selvaggio", ancestrale, quello del sogno come terra originaria. Guarda al Doganiere, Frida, nell’Autoritratto con collana di spine e colibrì del 1940. Ma in quest’opera fondamentale, il colibrì non è l’unico animale presente: ci sono farfalle e libellule, c’è un ipnotico gatto nero e soprattutto una scimmia. Un altro Autoritratto di tre anni successivo la vede ancora in mezzo a quattro scimmiette, con alle spalle una sterlizia, fiore regale chiamato anche "Uccello del Paradiso". Come pensava Breton, che in questa pittura rivedeva certi primordi dell’uomo, in Frida c’è crudeltà e umorismo, candore e impertinenza; ma gli opposti, in lei, si tengono in virtù di una purezza che è esile traccia della terra perduta.Roma, Scuderie del QuirinaleFrida KahloFino al 31 agosto
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