lunedì 10 aprile 2017
Parla Duccio Demetrio: prima di morire il santo chiede un dolce a Donna Jacopa: un segno quasi "autobiografico"
San Francesco dipinto da Bonaventura Berlinghieri, pala di Pescia (1235)

San Francesco dipinto da Bonaventura Berlinghieri, pala di Pescia (1235)

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Anche Francesco d’Assisi aveva la sua madeleine. Sempre di un dolce si trattava, anche se probabilmente molto meno raffinato di quello magnificato da Marcel Proust in una celebre pagina della Recherche. Non conosciamo la ricetta, ma sappiamo che ne era custode Donna Jacopa, così vicina al santo da meritare, a un certo punto, l’appellativo di “frate”. In una lettera dettata ormai nell’incombenza della morte, Francesco le chiede di venire a trovarlo, portando con sé un cilicio, la cera necessaria per la sepoltura e, per l’appunto, un po’ di quel dolce tanto amato.«È uno dei momenti in cui Francesco rivela qualcosa di sé, in modo involontario e quasi riluttante. Un atteggiamento, questo, che rende la sua figura ancora più importante nella storia delle scritture autobiografiche», commenta Duccio Demetrio, che al tema ha dedicato un saggio di grande acume e immedesimazione. Fin dal titolo: Scrivi, frate Francesco (Messaggero, pp. 184, euro 14, prefazione di Paolo Floretta). Filosofo dell’educazione e fondatore della Libera Università dell’autobiografia di Anghiari, in provincia di Arezzo, anche in questo caso Demetrio non rinuncia al suo stile originalissimo, nel quale l’esperienza personale si mescola alla ricerca storiografica, coinvolgendo il lettore in una sfida che è stata, in sostanza, la stessa di Francesco: rinunciare a se stessi raccontando di sé.

Non è una contraddizione?
«Dipende dalle condizioni e dalle intenzioni. Così come la conosciamo solitamente, la vita di Francesco è stata principalmente scritta dagli altri, lungo un processo che dalle opere di Tommaso da Celano arriva fino alla rielaborazione leggendaria dei Fioretti. E anche le testimonianze in prima persona, una trentina in tutto, sono nella maggior parte dei casi affidate alla scrittura altrui, spesso con l’ulteriore transizione dal volgare al latino. Tutto questo proietta il resoconto di Francesco in una dimensione che definirei di inconscio collettivo o, se si preferisce, di autobiografia diffusa, in una continua condivisione e ridistribuzione del proprio vissuto a beneficio degli altri».

Qual è il documento più caratteristico?

«Senza dubbio il Testamento, che nella sua forma estesa è rimasto per molto tempo in una posizione marginale rispetto alle biografie ufficiali, quando non è stato addirittura ignorato. Rappresenta invece un testo fondamentale, all’interno del quale la prima persona singolare affiora in maniera insistita e involontaria insieme. Leggere queste righe ci dà davvero l’impressione di ascoltare la sua voce».

Eppure è stato composto sotto dettatura.
«Esatto, il motivo d’interesse sta proprio qui. Nel momento in cui si affida alla mediazione di un altro, Francesco lascia emergere tutta la sua sensibilità e tutte le sue durezze. Si confessa e, confessandosi, si dimentica di sé. In un certo senso è il compimento del francescanesimo».

Lei sa che la questione è molto dibattuta, vero?
«Non sono un esperto della storiografia francescana, ma nello stesso tempo mi pare che sia impossibile, oltre che ingiusto, non riconoscere che ci troviamo davanti a un episodio decisivo nella tradizione dell’autobiografismo. Pur restando in tutto e per tutto un uomo del Medioevo, nel racconto di sé Francesco si dimostra un antesignano di molte correnti successive. Senza accorgersene, era già un umanista, alcune inquietudini destinate a manifestarsi nel Rinascimento già gli appartenevano. Penso alle scelte centrali nella sua esistenza, gesti quasi folli nella loro assoluta determinazione. Il distacco dalla famiglia da una parte, per esempio, e dall’altra un imprevedibile fiuto politico. E poi c’è la consapevolezza della vita interiore che si fa scavo nell’intimità».

La madeleine di Donna Jacopa?
«Esattamente. Ma anche il legame di amicizia con frate Leone, improntato a una schiettezza che non troviamo in autori di autobiografie altisonanti come sant’Agostino o santa Teresa d’Avila. Sono frammenti, sia chiaro, rispetto ai quali possiamo procedere solo in modo indiziario. Proprio per questo, però, questi affioramenti sono straordinariamente preziosi».

Che cosa intende per autobiografia diffusa?
«Un procedimento nel quale, prima ancora dell’accertamento dei fatti, conta il costituirsi di una comunità dell’immaginario. Attraverso questi testi veniamo a confrontarci con la storia della fede che i lettori hanno avuto in san Francesco, come se i destinatari del racconto venissero prima del protagonista. Si costituisce così una coralità molto moderna, molto contemporanea, che oggi ritroviamo nei libri di una scrittrice come Annie Ernaux. La vita di ciascuno include quella degli altri e da quella degli altri è interpretata e compresa».

Ma in Francesco è centrale il rapporto con Dio.
«Ogni autobiografia si rivolge a un “tu”. Questa necessità è ineliminabile e assume un significato ancora più incisivo quando, come nel caso di Francesco, l’interlocutore è Dio stesso. Per molti può essere una persona cara che non c’è più, con la quale si stabilisce una comunicazione che non ha nulla di medianico ma è, una volta di più, ricerca e rinuncia di sé».

L’autobiografismo di Francesco può essere un modello?
«Può indicare un metodo. Almeno, lo ha indicato a me. Non dimentichiamo che la sua vita si è svolta tutta in cammino, a contatto strettissimo con una natura sperimentata in ogni suo aspetto, gioioso o doloroso che fosse. Il fascino sta nel fatto che le diverse testimonianze, non escluse quelle riconducibili allo stesso Francesco, sembrano ruotare attorno a un nucleo inafferrabile. Una sensazione ben nota a chiunque provi a narrare di sé. Ma è proprio questo alone di mistero a giustificare il viaggio dell’autobiografia. Da intraprendere a piedi, se possibile, con carta e penna sempre a disposizione».

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