giovedì 3 aprile 2014
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Arriva oggi in libreria «Francesco: il cristianesimo semplice di papa Bergoglio»(il melangolo, pagine 56, euro 6), un breve saggio in cui il giornalista di «Avvenire» Alessandro Zaccuri propone una lettura dell’attuale pontificato attraverso la tradizione ignaziana degli «Esercizi spirituali» così come è mediata da alcuni capolavori pittorici. Anticipiamo qui un brano del libro.---------------------------------------------------------------- Gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyo­la sono il racconto di una semplicità conquistata. Il termine non è scelto a caso. Sia Francesco sia Ignazio sono stati soldati, hanno combattuto, han­no conosciuto il primo la prigionia e il secondo la sofferenza delle ferite. Dopo di che, hanno abbandonato le armi. «Tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono», si compiace di annotare Machiavelli nel Principe, i­stituendo una regola generale che però non tiene conto dell’eccezione francescana e ancora non può, per meri motivi di cronologia, apprezzare quella i­gnaziana. Francesco e Ignazio sono e vogliono es­sere «profeti disarmati», non per disprezzo della di­sciplina militare (che anzi riveste un ruolo tanto im­portante nell’organizzazione interna della Compa­gnia di Gesù e, in modo più sotterraneo ma non me­no rilevante, nella stessa famiglia francescana), ma perché in questa rinuncia all’armatura si consuma il primo stadio della spogliazione, che costituisce il fondamento e l’apice della vita cristiana. Nel mo­mento in cui si spoglia di sé, il credente condivide qualcosa del mistero dell’incarnazione perché, co­me scrive papa Francesco nel messaggio per la Qua­resima del 2014, «la povertà di Cristo che ci arric­chisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio». Prima ancora di denudarsi davanti al vescovo di As­sisi, Francesco decide di non indossare più la co­razza del cavaliere. A quel punto è già al cospetto di se stesso, è già nudo, già totalmente identifica­to con la sua sola umanità. Si pensi a un quadro ce­leberrimo: la Pala Montefeltro di Piero della Fran­cesca (1472). Tra i numerosi santi che compaiono del dipinto c’è anche Francesco, che nella mano de­stra tiene la croce, mentre con la sinistra scosta leg­germente i lembi di un taglio nel saio, sotto al qua­le sta un altro taglio, più doloroso: la ferita che il se­rafino gli ha impresso sul petto. È la ferita in cui so­no compendiate tutte le altre, la stessa piaga ri­prodotta con estremo realismo da Caravaggio nel­la magnifica Incredulità di Tommaso (1600-1601). Anche il Cristo di Caravaggio e il Francesco di Pie­ro, come più tardi il San Francesco di Francisco de Zurbarán, non portano segni sulle mani. A essere sottolineato è il punto del costato da cui, secondo Giovanni 19, 34, sgorgano «sangue e acqua», lo stesso binomio che ritroveremo in Anima Christi, la preghiera semplicissima che Ignazio pone in e­pigrafe agli Esercizi: Sanguis Christi, inebria me. / Aqua lateris Christi, lava me. Il Francesco che nella Pala Montefeltro mostra in­sieme la croce e la ferita ribadisce, con questo du­plice gesto, il legame specialissimo che fa di lui un alter Christus . Il suo è anche un atto di denuda­mento. Francesco lascia intravedere la propria nu­dità, sia pure parziale, perché in quella nudità – in quella carne altrimenti condannata al peccato – si è manifestata la salvezza. La mobilità del santo è in singolare contrasto con la fissità nella quale appare relegato il committente, Fe­derico da Montefeltro, l’unico tra i molti personag­gi del dipinto che Piero ritrae di profilo. Federico è anche il solo ad apparire in ginocchio, ancora rive­stito della sua armatura. Restano scoperti il volto, tratteggiato in una rigidità da cammeo, e le mani, riprodotte dal pittore con meticoloso realismo. No­nostante la plasticità dei dettagli (il colore dell’in­carnato, le venature che lo attraversano, gli anelli), le mani di Federico restano inerti, non operano al­cuna rivelazione, al contrario di quelle di Francesco. Le mani del condottiero sono terribilmente simili ai guanti dell’armatura appoggiati davanti a lui, per terra, pronti a essere indossati una volta terminata l’orazione. Vicino a loro c’è l’elmo, collocato di tre quarti, in modo da accentuare ulteriormente la li­nea innaturale del profilo: è come se la sommità dell’armatura, ancora con la celata abbassata, fos­se diventata il vero volto di Federico. Il guerriero non si è disarmato, la nudità delle sue mani è accidentale, momentaneo il suo presentar­si a capo scoperto. Il suo corpo non può ricevere al­cuna ferita, neppure per via mistica, come nel caso di Francesco. Ma lo spettatore intuisce che in que­sta incolumità si annida un pericolo: chi non viene ferito, non può essere salvato. Per questo non si dà, nel tempo presente come in ogni tempo, cristiane­simo che non sia disarmato. Intra tua vulnera absconde me, «nascondimi nelle tue ferite», si implora in Anima Christi. La preghie­ra conta tredici versi e questo delle ferite è il setti­mo: sta a metà, fa da perno, da chiave di volta. La predilezione che papa Francesco non si stanca di manifestare per «i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati» ( Evangelii Gaudium, 48) è radicata in questa consapevolezza, che è ricerca del centro e, quindi, riscoperta inces­sante di Cristo. Ne permittas me separari a te , «non lasciare che sia mai separato da te», è l’invocazione subito successiva: nascondersi nelle ferite di Cristo dà la certezza di essere uniti a lui.
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