martedì 26 febbraio 2013
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Col sorriso sulle labbra e le scarpe impolverate, tra le macerie del devastante terremoto del Belice, a fare quello che qualsiasi sacerdote in qualunque condizione continua a fare fino al suo ultimo giorno: celebrare l’Eucaristia. C’era anche un giovanissimo don Giuseppe Puglisi nel remoto angolo della Sicilia, fra le province di Trapani, Agrigento e Palermo, ferito dal violento sisma nel gennaio 1968 e già duramente colpito da disoccupazione, desertificazione, emigrazione e analfabetismo. È un’immagine inedita di quel martire, ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo e in attesa della beatificazione il prossimo 25 maggio, per troppo tempo considerato "solo" il parroco di San Gaetano a Brancaccio, incarico che ricoprì negli ultimi tre anni del suo ministero, prima che un colpo alla nuca sparato dal killer di Cosa nostra, Salvatore Grigoli, mettesse fine alla sua vita terrena.Un’immagine custodita nella memoria del movimento "Presenza del Vangelo" (allora chiamato "Crociata del Vangelo"), nato nel dopoguerra su iniziativa di padre Placido Rivilli, francescano, che ebbe a Palermo un nucleo solidissimo, animato soprattutto da donne volontarie. In testa c’era Lia Cerrito (oggi scomparsa), insegnante della scuola media Archimede, collega del giovane Puglisi, col quale sviluppò «una spiritualità del Padre nostro, che, a partire dalla paternità di Dio, si allargava a una dimensione ecumenica e abbracciava come prospettiva l’unità di tutta la famiglia umana. È a lei che Puglisi pensava quando decise di chiamare lo spazio che aveva creato a Brancaccio il Centro Padre Nostro». Lo racconta molto bene Vincenzo Ceruso, ricercatore palermitano, nel suo recente libro su don Puglisi A mani nude (edizioni San Paolo), con prefazione di Andrea Riccardi, in cui mette in chiaro ciò che spesso è stato taciuto sulla figura del sacerdote assassinato 20 anni fa. Ceruso offre un focus su don Pino sacerdote, quello che incarna il Concilio Vaticano II dell’evangelizzazione e della promozione umana, che va ad aiutare le popolazioni terremotate del Belice, che accetta di andare a Godrano, che cura la formazione dei giovani nel Centro vocazioni e in seminario. «Nel 1968 fu naturale per Lia rivolgere all’amico sacerdote l’invito a seguire un gruppo che si recava nella terra del Belice – scrive l’autore –. Portavano cibo e medicinali, ma distribuivano anche Vangeli per i baraccati. Fu per il giovane prete il primo contatto con un dolore radicale, a cui non era facile portare consolazione. Vi erano uomini che avevano perso da poche settimane il proprio nucleo familiare, che avevano lasciato la moglie e i figli sepolti sotto le macerie e trascorrevano le proprie giornate rinchiusi dentro le baracche, sepolti essi stessi sotto la propria sofferenza. Tra le strade polverose della baraccopoli di Montevago, in un mondo che non sapeva vedere altro che tenebre, il giovane prete non rinunciava a celebrare l’Eucaristia». Anche don Mario Torcivia, estensore materiale della positio super martyrium per il processo di beatificazione, nel suo volume Il martirio di don Giuseppe Puglisi fa cenno a questa esperienza nell’Agrigentino: «È un momento di grande condivisione con la gente e anche di annuncio. Accanto al pane si distribuiscono dei vangeli e don Pino è in prima fila in questa opera di evangelizzazione e carità». È proprio Lia Cerrito a descrivere l’incredibile esperienza vissuta in quei giorni: «Padre Puglisi celebrava su un piccolo tavolinetto all’angolo delle strade. La gente socchiudeva la porta e seguiva così, nell’ombra della baracca, la celebrazione eucaristica». Tra quei giovani amici di Puglisi vi era Carmela Gelsomino Drago, che nel libro di Ceruso ricorda nitidamente come don Pino fosse allora già entrato in sintonia con il movimento appena conosciuto, «perché ne sentiva l’essenziale polarizzazione verso la Parola di Dio». Perché questo diceva padre Rivilli ai giovani che nel dopoguerra gli chiedevano come poter ricostruire l’Italia: «Con la Parola», racconta Maria Concetta Gelsomino, oggi responsabile generale del movimento "Presenza del Vangelo" e testimone diretta di quella settimana trascorsa tra gli sfollati. «Un’immagine è fissa nella mia mente – ricorda –: una lunga processione con le ceste del pane da distribuire e con accanto le ceste del Vangelo. Noi andavamo in giro fra le baracche di Montevago ad annunciare la Parola».
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