giovedì 18 settembre 2014
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Nel dare il via al convegno “La fragile bellezza” nella Sala Papale del Sacro Convento di Assisi, il frate custode, Mauro Gambetti, ha annotato che la fragilità è propria delle cose gratuite, quindi spesso le più trascurate e denigrate. Allo stesso tempo è tipica della fragilità la capacità di generare sentimenti e il senso della bellezza. Analogo ragionamento può essere fatto per le caratteristiche artistiche e paesaggistiche del Belpaese: belle quanto fragili e trascurate. Le motivazioni storiche e culturali di questa trascuratezza sono state al centro del primo giorno di convegno, in particolare nel dibattito fra lo storico Ernesto Galli della Loggia e l’archeologo e storico dell’arte Andrea Carandini, presidente del Fai, propensi entrambi a considerare che quello del Belpaese è forse un mito che non esiste più, anche perché l’articolo 9 della Costituzione è stato disatteso.  «Non si può dubitare del fatto – ha esordito Galli della Loggia in un intervento in cui sono prevalsi i toni della critica più severa – che una certa Italia si è dileguata, non c’è più quell’impasto fatto di rovine, di storia, di natura, di edicole sacre sparse nelle campagne, di botteghe artigiane e piccoli centri urbani raccontato da tanti viaggiatori nei secoli. Resta uno scheletro ridotto a catalogo di beni culturali. E una distanza enorme separa il nostro sentire quotidiano da queste cose». Tutto questo non nasce però dal caso, ma da precise motivazioni storiche: «Nell’800 l’élite risorgimentale tendeva a oscurare il passato poiché c’era soprattutto bisogno di fondare un Paese nuovo, sull’onda del mito del progresso». Un retaggio che probabilmente ha condizionato il nostro modo di agire e di pensare riguardo ai beni culturali, poco incline alla conservazione e alla valorizzazione del passato. «L’Italia non ha avuto conservatori. E in un certo senso la democrazia (nata senza cultura democratica, ma sorretta dal primato della politica) ha determinato un’accentuazione di questi fenomeni anche per la necessità di prendere le distanze dalla logica fascista di emulazione del passato. Una sorta di eclissi dell’idea di nazione fatta di cultura, di paesaggi. I luoghi dell’arte sono le vittime principali dell’azione clientelare della politica in Italia, accentuata dal progressivo decentramento dei poteri a livello locale. Insomma l’idea del Belpaese si è appassita». Galli della Loggia ha puntato il dito anche sull’invadenza dell’omologazione: «Non siamo riusciti a dare alla modernità un connotato italiano, anche perché le nostre élite più recenti non si sono formate e non si formano sulle materie umanistiche ma su studi fatti all’estero il lingua inglese. Speriamo che le generazioni che arrivano sappiano fare meglio di noi». Attenzione però a come si parla di ambiente e di paesaggio. I due concetti non possono essere disgiunti dalla storia perché, ha sottolineato Carandini, «la terra è stata modificata dall’uomo fin dal Neolitico. Scordiamoci l’idea che in Italia esista una natura incontaminata.  L’impatto della storia sul paesaggio è fondamentale. Così anche l’arte non è separabile dalla storia». Secondo il presidente del Fai questo lo si deve al romanticismo, che ha fatto della bellezza un’idea legata al momento in cui è vissuta, avulsa dal tempo che ha contribuito a costruirla: «Un vulnus del quale ancora paghiamo le conseguenze. Per la cultura classica il bello è invece “il preferibile in sé” e riguarda non solo l’estetica, ma anche il senso civico, la morale, la vita pubblica e via dicendo». Il tema della tutela dei beni culturali e paesaggistici è al secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione. Ma il primo comma, ha annotato Carandini, «se lo dimenticano in molti: “La Repubblica promuove la cultura”. Ecco, la mancata promozione è il non saper far fruttare il nostro talento, perché la cultura non fa più parte della nostra vita. Del resto, chi insegna nella scuola italiana il paesaggio come unione fra ambiente e cultura? Invece prolifica il culto del feticcio, che sradica il capolavoro dal suo contesto, come capita in tante grandi mostre». Punto centrale è la gestione del patrimonio culturale: «Nessuno ha mai promosso un tavolo in cui i vari enti possano confrontare le loro gestioni per scegliere le strade più fruttuose. Tutto è ridotto alla voce “servizi aggiuntivi”. Allo stesso tempo, invece di mantenere i beni con le tasse bisogna stabilire un rapporto vivo fra noi viventi e questi morti da resuscitare che sono i beni culturali. Allora i monumenti assumeranno un ruolo essenziale per la comunità». 
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