venerdì 13 luglio 2018
Vita e scritti di un caposcuola, fraterno sodale di Gianni Brera. Un libro traccia il ritratto fedele dell'inviato e del suo stile attento soprattutto a raccontare la verità
Il giornalista sportivo Mario Fossati, nato a Monza nel 1922 e morto a Milano nel 2013

Il giornalista sportivo Mario Fossati, nato a Monza nel 1922 e morto a Milano nel 2013

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Il Mondiale di calcio di Russia 2018 sta finendo, il Tour de France sta per entrare nella sua fase più calda, le Olimpiadi di Tokyo arriveranno tra due anni. Considerazioni asciutte, scarne, che avrebbe annottato sul suo taccuino di lavoro anche Mario Fossati, uno dei maggiori maestri del giornalismo sportivo, ma soprattutto un uomo da non dimenticare. A tirarlo fuori dall’oblio, che tende a cancellare sempre di più i protagonisti di qualità e anche le penne storiche che hanno nobilitato questo mestiere, c’ha pensato uno dei suoi ultimi allievi, solo dal punto di vista temporale: l’inviato di “Repubblica” Enrico Currò. L’ultimo dei fossatiani, anche lui devoto a quella scrittura nuda e cruda che, come gli ha insegnato il maestro non ha bisogno di orpelli prosaici o forzature poetiche perché «il bravo giornalista è quello che scrive la verità». Perciò, l’estasi e il tormento dell’inviato di sport alla Fossati si consuma nello spazio - umano e intelleggibile - di 100-120 righe. La giusta misura e la debita distanza del Mariòn, come amichevolmente lo chiamava Gianni Brera. Due giganti del giornalismo, due stili completamente diversi, ma uniti da una grande passione per il racconto, uno più cronistico schietto, “fossatismo”, l’altro più epico-narrativo, il “brerismo”.

Due figli partiti soldati nella Seconda guerra mondiale e ritornati. Ma nella primavera del ’43 «per lo Stato, Fossati Mario, classe 1922 (nato a Monza) era uno tra i novantamila soldati italiani o caduti o dispersi nella campagna di Russia», scrive Currò in apertura di un libro che prima della lodevole pubblicazione della Bolis è stata la sua tesi di laurea. «Il mio primo libro, e forse unico», si schernisce l’autore che nel caso emulerebbe il maestro. Fossati a differenza della maggior parte dei suoi illustri e anche meno insigni colleghi ha lasciato un solo libro a sua firma, quello sull’amato Fausto Coppi, Storia della maglia gialla. 1952. Coppi (ripubblicato nel 2004 da Saggiatore col titolo Coppi. Alpe d’Huez, Galibier. Pirenei. Il Campionissimo verso la gloria del Tour del ’52). Un volume episodico, «scritto quasi di sfuggita», sottolinea Currò, perché a Fossati fare il giornalista e narrare le gesta degli eroi dello sport era un modo anche per esorcizzare la paura subita, la fame e le sofferenze patite sul Don. «Io faccio il giornalista, un libro è una cosa importante», zittiva, quasi seccato, a chi gli chiedeva di essere uno scrittore più prolifico. Ma a lui bastava essere il biografo in pectore di Coppi senza medaglie ufficiali da appuntarsi, e ancor meno senza pubbliche smancerie. È stato «l’esegeta» delle pagine gloriose dell’ippica, quelle dei leggendari cavalli campioni, Nearco, Ribot e Varenne, oltre che il difensore estremo dell’ippodromo milanese di San Siro che considerava un monumento di civiltà e non un luogo dove andare a scommettere lo stipendio. Parsimonia dell’uomo di fatica, artistico solo in quanto nipote dell’ottimo pittore Anselmo Bucci. Confidente privilegiato e fidato di Walter Bonatti, estensore della scalata del K2, come delle gesta dell’ultimo “Balilla” in campo, Giuseppe Meazza che conobbe più fuori che dentro il campo, ma ragazzino lo aveva visto giocare e l’accostamento con “Eupalla” (brerismo) Diego Armando Maradona, gli veniva naturale.

Con il fraterno Gioànn Brera condivideva l’altra passionaccia per un guru delle panchine, il Paròn di Trieste, Nereo Rocco. E sempre con Brera, Fossati aveva formato un tandem impareggiabile sul fronte ciclistico-olimpico, alla “Gazzetta dello Sport” dal 1945 al ’56, poi nella più grande redazione sportiva che si ricordi, quella del “Giorno” di Enrico Mattei, dal ’56 al ’62. E infine il lungo canto del cigno alla “Repubblica” di Eugenio Scalfari, dall’anno Mundial 1982 fino al 2008. Fossati è morto a 91 anni, nel 2013 e fino alla fine Currò era uno dei pochi che aveva libero accesso a quella che considera «l’ultima vera scuola di giornalismo nazionale». «Il tinello con la mobilia buona – scrive Currò – . La stanza-studio con gli scatoloni pieni di libri rari e di giornali d’epoca, ammassati sotto il tavolo. Il certificato di morte presunta del reduce della campagna di Russia chiuso in un cassetto del comò. La televisione sintonizzata sulle corse dei cavalli. Il quadro di Anselmo Bucci appeso alla parete grande. L’uccellino canterino che cantava quando gli pareva, nella gabbia vicino alla finestra del balcone. C’era tanta storia da imparare in quei venti metri quadrati con vista fornello della cucina. La storia da custodire. La storia da tramandare».

L’allievo consapevole avverte ancora l’odore del caffè che preparava la compagna di una vita del suo maestro inconsapevole (in prefazione Gianni Mura scrive di Fossati che «non c’è miglior maestro di chi non ha mai voluto esserl), la signora Nelia. Seduto sulla poltrona dello studio ha “dettato” al suo amatissimo allievo le “Dieci regole del giornalismo sportivo” e non solo, che andrebbero lette, studiate e mandate a memoria - assieme a questo libro - nelle scuole di formazione giornalistica. 1) Lo sport insegna a vivere. 2) Lo sport è misurarsi con i propri limiti. 3) Lo sport non è mai razzista e in questo caso, nel 2005 in pieno rigurgito razzista a Milano quanto mai puntuale fu l’appello al “nuovo anno”: «Vorrei che spingessi i milanesi ad aprirsi in gloria agli extracomunitari, rinovellando la loro tradizionale generosità». 4) Lo sport non perdona i brocchi. 5) Lo sport è spietato, ma equo. 6) Lo sport non cancella la memoria. E rivolto a tutto il collegame superficiale, specie quello dell’era social, Fossati avverte: «Il vero vizio è il provincialismo. Se io mi occupo di ciclismo, devo sapere chi è Ottavio Bottecchia, anche se correva negli anni Venti e ovviamente non posso averlo visto correre». 7) Lo sport è più forte della guerra: e questo lo aveva sperimentato in sessantacinque anni di onorata carriera. 8) Lo sport ama il suo pubblico e rispetta il suo giudice. Pertanto il suo monito di etica e deontologia provata sul campo, purtroppo è rimasto pressoché inascoltato dalla maggior parte della categoria: «Dare giudizi offensivi su un atleta, magari per il gusto di fare una battuta è profondamente sbagliato. Ed è altrettanto sbagliato che lo sport rinunci alla forma, certi formalismi apparenti in realtà sono sostanza». 9) Lo sport educa alla libertà. 10) Lo sport è essere se stessi, e questo era un insegnamento appreso dal giovane Fossati che rielaborò in quello che considerava il primo dogma: «Non comandare e non farti comandare».

Una missione quasi impossibile in un Paese come il nostro, ma il Mariòn è riuscito a portarla a termine, fino in fondo. E sono uomini come lui, ancor prima che giornalisti sportivi, che mancano in questo momento storico, e viene naturale provare quel vuoto incolmabile che avverte Currò: «Hai lasciato l’appartamento alla famiglia che si prendeva cura di te e della tua Nelia. I tuoi libri e i tuoi giornali d’epoca li sta catalogando una Fondazione. I tuoi articoli non moriranno mai. Ma la migliore scuola di giornalismo sportivo in Italia è chiusa per sempre».

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