giovedì 18 settembre 2014
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«La frammentazione della coscienza. Adecali, torturato dalle azioni che ha commesso. Elias Cole, per nulla turbato dalle mille cose che non ha compiuto. Adecali è stato indotto a provare vergogna, è stato ritenuto colpevole. Cole è stato venerato. E tuttavia, dove risiede la malvagità più grande se così la si vuole chiamare?». L’interrogativo “incastra” il lettore quasi alla fine de Il ricordo dell’amore, il nuovo romanzo di Aminatta Forna pubblicato da Cavallo di Ferro (pp. 686, euro 19,90). Un libro di straordinario impatto, vincitore del Commonwealth Writers’ Prize 2011. In cui i molteplici peccati di omissione che conducono una società all’implosione vengono sottratti al silenzio. E rielaborati dalla parola. Non per giudicare ma per comprendere e, forse, curare quelle ferite ancora fresche sulla carne di una Paese “sopravvissuto” alla guerra civile. Che, in questo caso, è la Sierra Leone del post 2002, quando gli accordi di pace misero fine a uno dei più atroci massacri dell’ultimo secolo, durato undici anni. «Purtroppo non si tratta di un’eccezione. Le guerre civili presentano dinamiche simili tra loro e differenti da quelle internazionali poiché viene tradito il patto di convivenza. E, alla fine, le parti avversarie si ritrovano costrette in uno stesso spazio, abbandonate a loro stesse. Gli effetti della violenza riecheggiano per generazioni», spiega l’autrice. Madre scozzese e padre sierraleonese, Forna vive a Londra. Alla nazione africana, però, è rimasta molto legata: là, a Rogbonko, ha creato nel 2003 una scuola per 200 bimbi oltre a una serie di progetti sanitari e igienici per la comunità circostante. Il Rogbonko Project la porta a trascorrere lunghi periodi in Sierra Leone. Dal punto di vista letterario, però, Forna non si definisce una scrittrice africana. «Scrivo storie che, a volte, sono ambientate in Africa. I temi che affronto, però, sono universali. Come si può vedere in Il ricordo dell’amore».In che senso?«Questo libro racconta l’implosione di un Paese e soprattutto i molteplici atti di complicità o omissione che conducono a tale devastazione. Elias Cole, il protagonista, è un esponente della classe media sierraleonese che si trova a vivere in un momento di profondi cambiamenti politici, economici e sociali: la fine degli anni Sessanta. Le sue scelte, sommate a quelle di un’intera generazione, sono destinate ad avere un impatto profondo sul futuro. Questo non vuol dire che chi non vive tali fasi di fermento non abbia il potere di incidere con le proprie decisioni. Al contrario. Di fronte a fatti tremendi, alcune persone affermano: "Non c’entro: io non ho fatto niente". Così si ritengono innocenti, come Cole. Mi chiedo: "L’astenersi dal fare qualcosa è meno grave della complicità manifesta?" Certo, milioni di Cole in differenti parti del mondo potrebbero rispondere di non aver avuto scelta. Lo hanno detto anche molti italiani durante il fascismo. Perché allora si continua a vedere l’Africa come un mondo a parte?».Lei che cosa direbbe?«In Occidente persiste ancora un’idea di "eccezionalità africana", come se tutto ciò che accadesse nel Continente fosse totalmente distinto, nel bene e nel male, da quel che si verifica in Europa o negli Stati Uniti. In realtà non è così. Nel mio romanzo, inserisco un personaggio minore, Ileana, romena e reduce dalla dittatura di Ceausescu che comprende la situazione sierraleonese poiché ne ha vissuto una tremendamente simile. A differenza dell’altro protagonista, Adrian, anche lui europeo ma inglese. Eppure pochi lettori occidentali si soffermano sul dettaglio. E come se la letteratura fosse ancora prigioniera della dicotomia bianco-nero».Nel romanzo i riferimenti al conflitto sono ridotti al minino. Anzi, lo stesso termine "guerra" compare a metà della narrazione. Perché?«Non mi interessa tanto la violenza quanto le sue cause e conseguenze. Le guerre non accadono per caso. Sono precedute da lunghi periodi di gestazione. In Sierra Leone, le radici del conflitto affondano nella devastazione sul sistema politico prodotta dal partito unico. Il quale, per mantenersi al potere, ha concesso ai militari "mano libera", tollerando gli abusi».Dodici anni dopo, quali effetti restano della guerra?«Il conflitto ha minato nei cittadini la fiducia nei confronti dell’altro. Hanno visto vicini, amici, parenti trasformarsi, d’un tratto, in spietati carnefici… Il Paese, però, sta facendo importanti progressi. La gente dimostra una grande capacità di guarire. Che non vuol dire dimenticare. Significa perdonare per poter andare avanti, per continuare a vivere. Un percorso simile a quello seguito dal Sud Africa e dal Ruanda. In questo senso, c’è un’eccezionalità africana o meglio un’eccellenza: i migliori esempi di riconciliazione sono avvenuti nel Continente».La parola, il racconto, la letteratura aiuta a curare e riconciliare?«Condividere i vissuti contribuisce a far sì che la gente attribuisca loro un significato. E questo è fondamentale per la memoria collettiva. Gli scrittori possono solo esortare ad analizzare le congiunture in profondità e a cogliere i segnali di allarme. Per questo, sostengo che per capire la realtà è necessario leggere i romanzi!»
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