sabato 6 dicembre 2014
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Non è un incontro prevedibile. Anzi, a voler essere sinceri gli incontri imprevedibili sono due. Quello tra un maestro saltimbanco che per gli ecclesiastici non ha mai mostrato eccessiva simpatia («Ho visto un vesc... Se l’ha vist cus’è? Ho visto un vescovo! Ah, beh, sì beh») e un uomo di Chiesa che specie con gli eretici non lesinava le maniere forti. Ma anche quello tra il più recente fra i premi Nobel italiani per la letteratura e il giornale che a suo tempo, nel 1997, più mise in questione il riconoscimento. Fuor di metafora: “Avvenire” incontra Dario Fo che incontra sant’Ambrogio, vescovo di Milano e di Milano patrono.L’occasione è fornita dalla televisione. Domani sera alle 21,10, subito dopo la diretta della “prima” del Fidelio dalla Scala, Rai5 manda in onda la registrazione di Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, lo spettacolo che Fo portò in scena nel 2009 al Piccolo Teatro. Un copione al quale l’autore è particolarmente legato, perché è l’ultimo nel quale recitò accanto alla moglie, l’inseparabile Franca Rame, morta il 29 maggio 2013. Nelle settimane successive la stessa rete trasmetterà una serie di commedie di Fo – dieci in tutto – ispirate prevalentemente ai grandi pittori del passato, da Giotto a Picasso, da Michelangelo a Mantegna. In tv, del resto, Fo ha sempre raccolto un pubblico fedele. Nel giugno scorso, per esempio, Lu santo jullàre Francesco, ha superato il 10% di share  nella prima serata di Rai1. Dal Poverello di Dio al Flagello dell’arianesimo però, il salto è impegnativo.«Ma no, ma no – corregge subito il Nobel –, lei dice così perché il vero Ambrogio non lo conosce nessuno. E chi lo conosce, preferisce censurarlo».Addirittura?«Ambrogio era un uomo di potere, su questo non si discute. Ma detestava l’ipocrisia, la corruzione. Era, più che altro, un difensore dei poveri. Una figura di straordinaria attualità, glielo posso assicurare».Partiamo dal potere?«All’epoca di Ambrogio Milano era capitale dell’Impero romano, un primato che durò per più di un secolo e che, ancora una volta, nessuno sembra più ricordare. Bene, in questa capitale Ambrogio aveva già un ruolo di estrema rilevanza, era il consularis magnus, il primo consigliere dell’imperatore Valentiniano. A quel punto arriva, inattesa e non voluta, la designazione a vescovo. Lui allora che cosa fa? Si sottrae, inscena una fuga, si traveste, costringe la polizia a intervenire. Lui che era il capo della polizia, capisce?, fa in modo di finire in mezzo a uno scandalo. Niente da fare, gli tocca presentarsi un’altra volta davanti al popolo. Mi segua bene, perché qui viene il bello».Non perdo una parola.«Ambrogio comincia ad accusarsi. Sono un infame, dice, non sono degno di questo compito, dentro di me c’è qualcosa che obbliga a rifiutare. Basta, devo andarmene. Accettate le mie dimissioni prima ancora che abbia accettato l’incarico. È a questo punto che, secondo la tradizione, si leva la voce del bambino a dire: no, tu sei un sant’uomo. Poi si alza un’altra voce: certo che lo è, ripete, perché è l’unico uomo di potere che, anziché mascherare il suo tristo comportamento, lo denuncia e lo ammette. Mi dica lei se non è democrazia questa».E lotta alla corruzione.«E lotta alla corruzione, giusto. Anche se, dal punto di vista politico, Ambrogio conosceva l’arte del compromesso, mai però per fini personali. Lo si vede nella disputa con Simmaco, che è forse il suo capolavoro nell’arte oratoria. Un colpo dopo l’altro, mette l’interlocutore in un angolo, lo riduce al silenzio argomentando a favore della liberazione degli schiavi, della comunità dei beni...».Lei ne sta facendo un precursore di Francesco.«Del santo di Assisi e anche del Papa attuale, ne sono convinto. In questi uomini trovo lo stesso coraggio di colpire duramente il potere, la stessa mancanza di soggezione, la stessa volontà di non scendere a patti. Basta ascoltare con attenzione le prediche che il Papa pronuncia ogni giorno in Santa Marta per accorgersi che il linguaggio è quello, quelli sono gli obiettivi».Lei lo sa, vero, che non tutti i cattolici hanno in antipatia Dario Fo?«Sicuro che lo so».Ma a lei i cattolici stanno simpatici?«Non ho mai avuto prevenzioni, se è questo che mi sta chiedendo. Al contrario, la Chiesa è stata molto importante nella mia vita. Ricordo due circostanze, in particolare. La prima risale alla mia infanzia. Dalle mie parti, tra Varese e il lago Maggiore, c’è questo paesino, Domo Valtravaglia, dal quale per tradizione venivano reclutati i piccoli cantori del Duomo di Milano. Toccò anche a me e fu in questo modo che imparai a leggere la musica, a lavorare sulla voce. I miei insegnanti erano tutti preti, magari non i più apprezzati nell’ambiente ecclesiastico, ma gente viva, spiritosa, che si sforzava di capire se stessa per meglio capire gli altri».E l’altro episodio?«Ancora Milano, nel dopoguerra. Frequentavo i socialisti, i comunisti, ma a segnarmi maggiormente sono stati i gesuiti, che in quel momento erano capaci di imprese incredibili in campo sociale e, più ancora, di iniziative molto audaci nell’ambito dell’arte. A volte li ascoltavo predicare e mi dicevo: possibile che questo sia un gesuita? Fu da loro che sentii parlare per la prima volta di sant’Ambrogio come di una figura rivoluzionaria. Ecco, a preti di questo tipo sono rimasto sempre vicino nel corso degli anni e loro sono rimasti vicini a me. Mi hanno cercato spesso, li ho aiutati ogni volta che ho potuto. A me piace la Chiesa che sta in mezzo ai poveri, mi piacciono le persone coraggiose, che mettono il valore umano alla base del loro agire».Le piace Ambrogio, insomma.«Sì, mi piace Ambrogio, mi piace Francesco e mi piace Papa Francesco».
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